Il primo intervento Nato in una nazione sovrana

Il primo intervento Nato in una nazione sovrana PER LA GUERRA O PER LA PACE Il primo intervento Nato in una nazione sovrana COMUNQUE vada, questa conferenza segna una tappa fondamentale nella storia della Nato: è a partire da Rambouillet, a partire da queste ore che l'Alleanza Atlantica sta gettando le basi per il suo primo intervento armato in un Paese sovrano. Accadrà in territorio jugoslavo, con tutte le incognite che una simile impresa comporta. Non si tratterà, come in Bosnia, di porre fine a una guerra civile, di metter piede in una nazione dall'identità contesa: qui si parla di spedire armati all'interno di un territorio sovrano, a tutela di un territorio che nessuno riconosce come indipendente e nessuno, almeno a parole, immagina come tale. Si tratta solo di stabilire se questa storica avanzata - per i serbi, invasione - avverrà su accordo di entrambe le parti o più tardi, dopo una prova di forza che tutti temono ma verso cui si sta scivolando a forza di ultimatum inutili e finte equidistanze. La base di discussione consiste nel piano stilato venerdì scorso a Londra dai Paesi del Gruppo di contatto: progetto che, come ha fatto sapere il Dipartimento di Stato americano, almeno per l'ottanta per cento «non è negoziabile». I piani sono tracciati, verso i confini con l'Albania s'ipotizzano quattro zone «protette», se ne designano i protettori, per i kosovari s'ipotizza in tre anni la massima autonomia possibile, in attesa di elezioni. Se l'accordo dovesse giungere nelle prossime due settimane (cosa alquanto improbabile), entro marzo 6-8 mila soldati occidentali calerebbero come guardiani della pace nella provincia contesa. In caso contrario, lo farebbero dopo una prova di forza dagli esiti imprevedibili e che aumenterebbe a dismisura le necessità militari (25-30 mila uomini solo fra le truppe di terra). Più che di una «Dayton europea» oggi dunque dovremmo parlare di una «Dayton due», tanto poco gli incontri di Rambouillet appaiono influenzati da ritmi e cautele delle diplomazie continentali. Il suo stile è sagomato sul «tour de force» che quattro anni fa spinse le forze che si combattevano in Bosnia ad un accordo di facciata. E anche i risultati potrebbero essere non molto diversi. La Dayton americana fermò i massacri, ma da quel momento ha inutilmente tentato di costruire un modello di convivenza ed ancora oggi impantana decine di migliaia di soldati, messi a guardia di una pace eternamente fragile. A chi si sforzasse di seguire un modello diverso il senatore repubblicano Bob Dole, già candidato alle Presidenziali americane, ha spiegato ieri attraverso il «New York Times» il senso delle cose. Secondo lui «senza la leadership americana e senza l'applicazione dei princìpi americani, le possibilità di un accordo duraturo sono poche. I nostri amici europei hanno storici pregiudizi che impediscono loro di essere degli onesti mediatori». Ecco dunque emergere la vera natura della conferenza parigina: quello che si è aperto ieri sera a Rambouillet più che tavolo di trattativa è luogo di scontro fra tre rigidità. Il prendere o lasciare imposto dalla comunità internazionale; il rifiuto dei serbi alla sola idea d'incontrare «i terroristi» dell'Uck; le dichiarazioni dei rappresentanti albanesi, secondo cui senza l'Uck non si muoverà un passo. Accettare una cantonizzazione, sia pure parziale, del Kosovo, per Belgrado significherebbe rinuncia alla sovranità, perdita d'identità nazionale, rischi nella relativa stabilità interna. Il regime si troverebbe nella necessità di fronteggiare le reazioni di nazionalisti e radicali. Nella delegazione kosovara, è molto difficile immaginare quale punto d'equilibrio possa mai crearsi fra le richieste d'indipendenza dei guerriglieri e le aperture di moderati che nell'ultimo anno sembrano aver perso non solo rappresentatività, ma anche reale influenza. Fra chi è partito ieri dai Balcani in direzione Parigi, nessuno crede davvero alle possibilità di un accordo. A dimostrarlo è la composizione stessa dei gruppi: la delegazione albanese non conta né Ibrahim Rugova, simbolo sconfessato del pacifismo, né Adem Demaqi, l'uomo che ha cercato di scavalcarlo ponendosi come portavoce della guerriglia. I diciassette esponenti kosovari non hanno designato neanche un leader (a meno che il ruolo non sia stato assegnato di fatto ad Hascim Thaci, leader dell'«Uck»). La commissione jugoslava è guidata dal vice primo iriinistro serbo, Ratko Markovic, e priva di ogni potere reale. I kosovari già dicono che non è in grado di trattare, né di firmare alcun accordo, né di farlo applicare. Giuseppe Zaccaria La missione armata è inevitabile: con 6-8 mila soldati nel caso (improbabile) di un accordo o con 25-30 mila uomini solo fra le truppe di terra nell'ipotesi più verosimile di fallimento '3ar ^rist'na c*ove una bomba ha causato tre morti, un attentato contro i negoziati

Persone citate: Adem Demaqi, Bob Dole, Giuseppe Zaccaria, Ibrahim Rugova, Ratko Markovic

Luoghi citati: Albania, Belgrado, Bosnia, Hascim Thaci, Kosovo, Londra, Parigi, Rambouillet