«Jugoslavi, tornate in Europa» di Enrico Benedetto

«Jugoslavi, tornate in Europa» L'apertura in ritardo: i serbi continuavano a bloccare i delegati albanesi. Bomba a Pristina, 3 morti «Jugoslavi, tornate in Europa» Alla Conferenza sul Kosovo appello di Chirac e Cook PARIGI DAL NOSTRO CORRISPONDENTE «Quando partirete da Rambouillet, l'Europa avrà voltato pagina. Serbi e albanesi del Kosovo, il mondo vi guarda e aspetta. Fate trionfare le forze della vita su quelle della morte!». Jacques Chirac guarda negLi occhi i duellanti che lo ascoltano senza battere ciglio. 13 serbi, e 17 kosovari. Se la Conferenza di pace - inauguratasi ieri fra mille ambasce e ritardi a catena - fallirà, potremo consolarci invocando la cabala. «Ma abbiamo un solo obiettivo, farcela» sintetizza il ministro Hubert Védrine, gran cerimoniere con il britannico Robin Cook aprendo la maratona, ultima spiaggia negoziale prima che la Nato colpisca (entro aprile, precisa il negoziatore Ue Wolfgang Petrisch) Serbia e Kosovo. Pristina inganna tuttavia l'attesa con altre bombe. Tre vittime nell'esplosione di un negozio. L'eco arriva nell'ex reggia attutito da stucchi e boiseries. Dopo una 24 ore in bianco - attendendo che Belgrado degnasse lasciarh partire - i Diciassette sono alfine qui, pressoché increduli dinnanzi alle telecamere. Ostaggi nella loro capitale fino alle 13, quando già l'Europa temeva il peggio, eccoli sbarcare da un bus fuori tempo massimo. Jacques Chirac e il Gruppo di contatto erano in fibrillazione da 120 minuti, con il cerimoniale ko e i cameramen depressi. Ma poi sbuca la sciarpa di Ibrahim Rugova. E' lui, capo moderato in un Kosovo fanatizzabile, a uscire per primo dal torpedone. E quel fotogramma nasconde forse una profezia. Solo Rugova, dicono i francesi, può fare il miracolo, piegando i 5 indipendentisti Uck. Dell'«autonomia sostanziale» - che Chirac propone loro, citando alla lettera il piano Usa, non vogliono saperne. E il «riprendere posto nella famiglia europea», come l'Eliseo sottolinea, li lascia gelidi. Ma forse, ascoltan- dolo affermare con forza che «la Francia e l'Europa non tollereranno una guerra in Kosovo», un dubbio li sfiora. Da Londra, Parigi, Bonn, Washington... e a fortiori Mosca non arriva più l'auspicio ma il diktat. Jacques Chirac lo farà loro comprendere, nel discorso introduttivo, senza bisogno di eccessive acrobazie verbali. La bozza di pace non si tocca. Firmate, o saranno guai. E un diplomatico europeo ribadisce, in margine alla sessione inaugurale, che l'80% dell'ipotetico accordo è «intoccabile». Anzi, dandolo in fondo per già acquisito il ministro degli Esteri tedesco Fischer auspica fin da ora una «Conferenza bal¬ canica» che esamini gli altri contenziosi regionali. Sulle loro seggiole dorate, Jakup Krasniqi, Ram Buja, Azem Syla, Xhavid Haliti e Hasim Taci non tradiscono la minima emozione. Ma il viso è stanco. E la giacca stazzonata. Nomi astrusi, che ci diventeranno tuttavia familiari nelle due settimane a venire. Il miracolo della pace è nelle loro mani. La delegazione Uck è venuta a Parigi per strappare un Kosovo sovrano. Ma non potrà spuntarla. «Se gli albanesi vogliono farsi rappresentare da criminali, preferendoli ai politici, è affar loro» dice, senza celare lo sdegno, una fonte belgradese. «Con chi semina il Terrore non parliamo, che i mediatori se lo scordino» precisa Ratko Markovic istruendo le sue truppe per il tavolo della trattativa. Eppure sono lì, serbi ed albanesi, seduti a pochi metri. Miracoloso. Anche se gli sguardi rifiutano ostinatamente d'incontrarsi, l'Europa li riunisce loro malgrado. Chirac ricorda che il medesimo salone - su cui troneggia Francesco I - vide l'incontro fra de Gaulle e Adenauer. Due irriducibili nemici liquidarono un interminabile passato guerresco. Provateci anche voi, suggerisce l'Eliseo con la citazione gollista. «Dovete guardare a un nuovo orizzon¬ te, l'Europa, cui appartengono pienamente i vostri popoli». «Pace nei cuori, democrazia, tolleranza» scandisce Jacques Chirac. Ma si guarderà bene dall'invocare l'oblio su «figli uccisi e villaggi distrutti». Parigi e gli europartner non rinunciano all'idea che al Kosovo «vada resa giustizia». Amnistiare crimini brutali sarebbe - si evince una barbarie novella. All'allocuzione presidenziale seguono quelle di Cook («Noi vogliamo che i Paesi dell'ex Jugoslavia si uniscano a noi in una Europa moderna»), e Védrine. Poi su Rambouillet plana il silenzio stampa. Fuori i giornalisti! E che si rifacciano vedere solo per l'happy end. La sindrome Dayton colpisce ancora. E a visualizzarla, ci pensa l'americano Christopher Hill con un bel jogging nel parco. I domestici spengono le luci, Chirac rincasa e i ministri pure. Prima di andarsene, Védrine relativizzerà il non dialogo serboalbanese. Pretattica, fa capire. E qualora l'incomunicabilità duri, al massimo i Sei faranno la staffetta. Sul maniero cala il buio. A pianterreno le stanze dei serbi, sopra i kosovari. In mezzo, guerra (effettiva) e pace (virtuale). Castello sì, ma nell'accezione kafkiana. Enrico Benedetto I ministri degli Esteri inglese e francese Robin Cook e Hubert Védrine davanti al castello di Rambouillet Nella foto piccola un momento della protesta dei kosovari