Sessantotré anni vissuti do leggenda di Igor Man

Sessantotré anni vissuti do leggenda Sessantotré anni vissuti do leggenda Tra mille attentati e intrighi internazionali PERSONAGGIO SUL TRONO DI UN PAESE INVENTATO USSEIN: «Uridu an muta malikan bari», vogbo morire da re, neba mia terra, ha detto. (Almeno così si vuole). Ma non ce l'ha fatta. Prima di entrare in queha zona d'ombra dove daba vita vera si passa aba vita artificiale, Hussein Ibn Talal el Hashun ha voluto, in un soprassalto d'orgogbo, riaffermare il suo rango di fronte alla morte terrena. Di più: le sue parole «autorizzano» il cerimoniale giordano a decidere l'ora, il giorno, il luogo deba sua fine ufficiale. Tutto ciò in funzione di un funerale che sancisca anche coreograficamente la successione decisa dal Piccolo Re col recentissimo «ribaltone di Amman». Nel veloce spazio d'una settimana, Hussein sfrattò il fratebo che lo aveva «tradito», indicando a succedergb U principe Abdabah, suo primo maschio, avuto daba principessa Muna, un'amabhe crocerossina inglese che dopo il divorzio ha continuato a vivere hi Amman, proprio per «coltivare» codesta successione. Naturale, per altro, sennonché quando Hussein decise di nominare il suo erede, Abdabah era in fasce, così l'incarico passò al diciottenne «amato fratebo Hassan». Si diceva deba ostinata battagba di Nur, l'ultima beba mogbe di Hussein, mezza americana, mezza siriana, volta a convincere il Sovrano suo sposo a indicare come successore il giovine principe Hamza, nato daba loro (febee) unione e che il Piccolo Re ha sempre chiamato «pupilla dei miei occhi». Una battagba perduta in partenza poiché i pettegob di Corte spiegavano che «quando Iddio vorrà», il successore di Hussein sarebbe stato colui che in fatto regnava: cioè il principe Hassan. Meglio, si diceva che Hussein regnava ma a governare era giustappunto Hassan, il pragmatico, il monogamo, l'irascibile principe-manager. In realtà le cose così stavano, ma è soltanto negb ultimi sei mesi, col fratebo oramai «morto che parla» schiavo deba chemioterapia neba remota clinica per vip Mayo (Minnesota) che la situazione precipita. In un vero e proprio debrio di onnipotenza, a metà fra la soap opera e Shakespeare, Hassan comincia a comportarsi non più come futuro successore bensì come sovrano. Un sovrano senza corona che tuttavia sistema amici e parenti neba camera dei bottoni, che insedia il cognato al ministero deba propaganda e stampa, che senza pudore inonda gb uffici pubbbei di suoi ritratti e questo contro ogni tradizione, a prescindere dal buon gusto, daba mancanza di rispetto verso Hussein. Una leggenda vivente, costui, non fosse altro per la barato (l'infula protettrice di Dio). Aveva quindici anni quando suo nonno, l'Emiro Abdallali, venne assassinato dal primo fedayn della storia davanti aba Mo- schea di Al Aqsa, in Gerusalemme. Si racconta che una pesante medagha di bronzo appuntatagli proprio dal nonno sul petto lo salvò dal proiettbe a lui destinato. Fu queUo il primo segno che la morte aveva deciso di risparmiare il 41° discendente deba più famosa dinastia islamica, l'Hascemita, il 38° discendente in lmea diretta del Profeta Maometto. Tre settimane dopo i funerali di Abdabah, per poco non viene pugnalato dal padre Talal, «malato di nervi». Talal viene trasferito in una clinica turca e il giovinetto sale sul trono. Ha studiato ad Harrow e all'accademia mibtare di Sandhurst, «ha un cuore arabo e un cervebo inglese», dicono di lui, e nessuno è di- sposto a scommettere un Dinaro bucato su a^eb'omino quasi macrocefaio, dalla voce bassa da ventriloquo. Solamente Nasser intuisce che l'omino è un duro e decide di fargli fare la fine del cugino, Feisal II, re deb'Iraq. Una bomba esplode nel palazzo del governo di Amman facendo a pezzi il primo ininistro e otto dignitari. Hussein si salva per aver tardato qualche minuto. Se l'era già cavata qualche tempo prima quando i siriani avevano cercato di abbattere il suo vecchio De Havbland. Se la caverà quando, nell'ottobre del 1974, a Rabat, quel vertice arabo designò l'Olp unico e legittimo rappresentante del popolo palestinese. Hussein, dopo aver tentato invano di opporsi, accettò dignitosa¬ mente la decisione. Annunciò che, non avendo più terre da liberare né sudditi da soccorrere, «non avrebbe più fatto la guerra né partecipato a negoziati di pace». E aggiunse: esco di scena, così come avete voluto, ma verrà un giorno in cui dovrete venire a cercarmi». Se la caverà con il dentifricio aba stricnina, coi cibi avvelenati, con la rivolta del generale Abu Nuwar. Se la caverà nel 1970 quando, dopo aver subito lo stato nello stato creato dai palestinesi in Giordania, li caccerà a cannonate dal suo regno. E' la strage del Settembre Nero. E venne il giorno in cui qualcuno lo cercò: il Presidente Reagan. Con un suo piano proponeva un autogoverno palestinese in Cisgiordania e neba Striscia .di Gaza in associazione con il regno di Giordania. Il piano venne immediatamente rifiutato da Israele, ma Reagan puntò tutte le sue carte su Hussein: «E' lei la chiave della situazione», gli disse nel dicembre dell'82 aba Casa Bianca. Hussein rispose di aver sempre sostenuto che «prima o poi bisognerà rassegnarsi a trattare con Israele», tuttavia per negoziare pose due condizioni: l'assenso di Arafat, l'impegno degli Stati Uniti a congelare gli insediamenti israeliani in Cisgiordania. «Non voglio fare la fine di Sadat», concluse. Quel disegno pobtico falb e da allora, tra alti e bassi, attraversando la cruna difficile e infida della Guerra del Gobo, la stagnazione economica del suo Paese «in¬ ventato in un pomeriggio di domenica, per vincere la noia», da Churchill come questi ha scritto, fra donne e spericolatezze da aviatore senza paura, Hussein è giunto all'appuntamento con le grandi svolte. Prima fra tutte, le prossime elezioni israeliane, che dopo l'assassinio di Rabbi e l'avvento di Netanyahu dovrebbero chiudere un periodo nero e riaprire prospettive al processo di pace. Ma 0 cancro che egli aveva creduto di aver vinto al prezzo di un rene, lo ha riassalito forse nel momento più critico della sua tormentata carriera. Il resto è cronaca ancora calda. Di conserva con l'ambizioso Hassan, sua moglie, la principessa pakistana Sarvath, si dà da fare affinché il possibde ostacolo all'ascesa irresistibile del marito, cioè il principe Abdallah, venga tenuto a bada. Sempre secondo il Gossip di Palazzo, l'ambiziosa Sarvath sussurra che Nur abbia sangue ebraico nebe vene e ride deba «pochezza intebettuale» di Abdabah. Tutte queste storiacce giungono alle orecchie del malato Hussein. Ma è soltanto quando viene a sapere che «il fratello infame» sta cercando di estromettere dall'esercito «tutti gli uomini del re», è solamente allora che Hussein, paventando un colpo di Stato militare, decide di tornare in patria, «perfettamente guarito». Invece non è così, il trapianto di midobo è fallito, ce ne vorrebbe un secondo, ma prima di tentarlo, 0 Piccolo Re scaccia e condanna (moralmente) il fratello-Caino. Lo fa indirizzandogli una lettera, scritta a mano, in arabo classico, ma sulle due facciate di sei fogb. Verso la fine la calligrafia ornata di Hussein, quella che si conviene a chi ha studiato l'arabo colto, è un gerogbfico. Tuttavia abbastanza chiaro: Hassan, mi hai tradito e io ti scaccio. Con infamia. Raccontano che Hassan dopo aver letto la terriMle missiva del fratello, un j'accuse euripideo, abbia chiesto di andare in esilio. «No», è stata la risposta del fratebo re: «Devi rimanere qui affinché il tuo atto di sottomissione sia visibile e comprensibile». Risposta: «Obbedisco. Sono nelle tue mani». Nel 1962 quando scrisse la sua autobiografia scelse come titolo una battuta di Shakespeare: Uneasy ìies the Head, Inquieto giace il Capo. E inquiete saranno da oggi le giornate di chi, miserabili e potenti, vive in Medio Oriente, nel segno deh'incertezza, della preoccupazione. Ma domani è un altro giorno, e si vedrà. Come soleva dire Hussem nei momenti grami. Igor Man