Bologna, l'Apocalisse rossa

Bologna, l'Apocalisse rossa INCHIESTA I TRAVAGLI PER IL VOTO I Ds non riescono a trovare un candidato sindaco, mentre l'ex premier tesse la sua tela Bologna, l'Apocalisse rossa E Prodi si veste da Angelo Sterminatore BOLOGNA DAL NOSTRO INVIATO «E dopo vidi scendere dal cielo un altro Angelo, con grande potenza, e la terra fu illuminata dal suo splendore. Egli gridò con voce potente: "E' caduta, è caduta la grande Bologna!"». Pardon: Babilonia. Ma l'Apocalisse, che poi vuol dire anche rivelazione di cose che c'erano, ma non si vedevano, è comunque un testo da mettere in valigia prima di partire per la capitale - «oh potente città!» - del comunismo e del postcomunismo italiano che oggi, francamente, sotto le due Torri non se la passa molto bene. L'unica accortezza, poco meno che filologica dal punto di vista dell' adattabilità, è non dimenticare mai che il testo di San Giovanni va interpretato. Per cui, con tutto il rispetto, l'angelo sterminator che proclama la fine di Bologna rossa «Vestita di bisso, di porpora e di scarlatto... Qual città fu mai simile a questa?» - non è né tonante né splendente. Ha gli occhi vispi, il cappotto, il telefonino e sottobraccio una copia spiegazzata di Avvenire che ieri gli ha pubblicato integralmente un'intervista concessa al Regno (commento: «In due anni e mezzo mai successo»). Fresco di barbiere, Romano Prodi lo incontri all'angolo tra via Gerusalemme - ultima coincidenza biblica - e i portici di Strada Maggiore, insieme con il consiglierepolitologo Arturo Parisi, e con risoluta cortesia ti offre pure un caffè. Apparentemente ignaro di questo suo ruolo apocalittico, s'informa sull'ex sindaco Zangheri, chiedendosi se può avere ancora un ruolo, nel caos della. Quercia che non riesce a trovare un sindaco decente; racconta che alla moglie hanno rubato per sei volte la bicicletta («La mia no»); quindi riflette ad alta voce sul fatto che a Peggio, per paura di essere scippate, ci sono signore anziane che vanno a messa in gruppo. Sta rimuginando, s'intuisce, sul tema (sempre più elettorale) della sicurezza. La politica-politica riemerge al bar. Prodi ha l'aria di chi ha deciso, ormai. Ma non si scopre, somministra parole generiche, diffidenti. Solo quando gli si para davanti la duplice e brutale obiezione - che si possa pensare che è il suo risentimento a spingerlo a fondare l'ennesimo partitino - ti squadra, perfino con qualche interesse, e nega, sdrammatizza, si richiama al tempo: ((Abbiamo ancora - dice fiducioso - abbastanza tempo». Il tempo, invece, è proprio quello che i diessini di qui non solo non hanno più, ma per farsi più male seguitano dissennatamente a sprecare. Gli sbandamenti, le faide, il cupio dissolvi degli eredi del partito comunista più forte dell'occidente sono solo un sintomo. Quanto basta, comunque, perché Prodi scelga proprio Bologna, dove peraltro sono più profonde le radici dell'Ulivo, per sferrare un attacco diretto al cuore di D'Alema. E senza nemmeno dirlo, per giunta: con la sua stessa presenza, con le sue abitudini, i suoi auspici vagamente oracolari, la messa a San Bartolomeo e San Prospero (con sempre più nutrita assemblea notabilare) e l'appuntamento ciclistico un po' fantozziano ai giardini Margherita. Chi l'avrebbe mai detto che quella specie di partito unico dal volto umano, prodigio di efficienza e pragmatismo, sarebbe stato sfidato proprio a casa sua. E da un ex alleato. Non paia irriguardoso, a questo punto, né fuori misura, ricordare il Berlinguer del settembre 1977, alla vigilia del raduno contro la «repressione»: «Non saranno quattro poveri untorelli - disse - a spiantare Bologna». In realtà si presentarono in 40 mila, e anche piuttosto agitati. Bene, esercitando in modo sublime la virtù del buon viso a cattivo gioco, il Pei bolognese concesse agli untorelli parchi, sale, università, Palasport; li sfamò e un po' fece pure finta di comprenderli. Contemporaneamente mise su una discreta ma poderosa vigilanza, tenne le sezioni aperte, organizzò dibattiti e tre festival dell'Unità. Il sindaco Zangheri - di cui giustamente Prodi vuole sapere se «fa aincora politica» - se ne andò osttmtatamente a ballare la mazurka al Pilastro (mentre gli autonomi si scazzottavano). Non senza aver concesso interviste al New York Times, a Le Monde e alla Bbc. Fu, quella del Pei bolognese, una prova di potenza e di maturità indimenticabili. E ora? Ora niente. Vent'anni fa venivano anche dall'Inghilterra e dagli Usa (Sassoon, Hellman, Lang, Kertzer, Ballony, Bob Leonardi) a studiare il Pei. Venne anche il giovane governatore dell'Arkansas, Bill Clinton, a osservare da vicino i distretti industriali. Adesso, se va bene, vengono da Roma e da Milano a farsi raccontare le penultime manovre di Rosazza, le amarezze di Zani, la pur generosa malinconia del sindaco Vitali, che il suo partito aveva messo lì e poi non lo voleva più. Luogo comunque cruciale. A Bologna non c'è stata la Lega; né Tangentopoli, con la decapitazione giudiziaria della classe dirigente. Se proprio si deve trovare un qualche evento che qui ha lasciato il segno tocca tornare all'Ulivo, a Prodi, al suo mondo oligarchico, ma evoluto di tecnocrati che vanno a messa, industriali pieni di quattrini, scienziati della politica ormai sempre più politicizzati e «ulivocultori» di vario genere, secondo la definizione di uno dei fondatori del Mulino, quel Luigi Pedrazzi, vicesindaco della travagliata giunta nonché autore di un pamphlet intitolato appunto L'Ulivocultore bolognese (Il Mulino, 18 mila). Prodi ne è del tutto consapevole. Formalmente estraneo ai travagli municipali, in realtà riceve in casa le delegazioni; ha i giornalisti sotto casa più di prima (ma alla Befana li ha invitati a mangiare); ha rilanciato la vecchia idea di Gianfranco Pasquino sulla primarie di coalizione; esercita un notevole potere di attrazione sul presidente delia Regione, il diessino inquieto La Forgia; e sulle altrui campagne elettorali si concede irresistibili perfidie. Il simpatico capo dei macellai Guazzaloca, per dire, una sorta di Poujade locale che ha presentato ad effetto la propria candidatura a sindaco dalla Bolognina («Ci abitava mia nonna e alcune mie zie»), si è richiamato al rapporto tra il mitico sindaco Dozza e i concittadini. «Dozza? - è stato il commento svagato di Prodi - allora Guazzaloca impari a parlare il tunisino...». Per farla breve: a Bologna Prodi c'è, si vede, si sente. Si capisce da piccole cose, talvolta anche non vere. E' bastata ad esempio una battuta dell'entourage perché divenisse plausibile, se non altro a livello di suggestivo cortocircuito mediatico, la candidatura di Flavia Franzoni in Prodi a sindaco di Bologna - mentre sui destini elettorali del fratello Vittorio, presidente della Provincia uscente, il mistero è fitto. Non si tratta solo di proiezioni simboliche od estensioni parentali. Per tornare, sia pure con leggerezza, all'apocalisse diessina nella città di Prodi, vale giusto la pena di segnalare che proprio nel momento in cui i partiti, i Ds soprattutto, tentavano di riaffermare la loro autorità e la loro tradizione, il lea- der dell'Ulivo ghel'ha sfilate di tasca e senza nemmeno chiedere per favore l'ha poste sulle sue insegne. Così, da laboratorio del Pei - e «famiglia perfetta», «isola febee», «fortezza inespugnabile» e via trionfalmente declamando - Bologna potrebbe addirittura diventare la cavia del prodismo. L'appropriazione indebita, del resto, in politica è all'ordine del giorno. «L'Ulivo sono io» dice D'Alema? Bene, Prodi risponde facendo partire il treno da Bologna, e proponendosi lui come il rappresentante del modello emiliano: sviluppo, mercato, coesione sociale, modernità, concertazione, pragmatismo, governo della complessità e via dicendo. Insomma, il massimo della «bolognesità» disponibile sul mercato, naturalmente anche elettorale. Sottile operazione, crudele vendetta. Sotto questa luce appare ancora più desolante lo spettacolo offerto dalla Quercia bolognese. Qui, in 54 armi, ci sono stati solo cinque sindaci (Dozza, Fanti, Zangheri, Imbeni e Vitali). L'inusitata stabilità ha finito per assegnare a questa figura un potere quasi sacrale, secondo Parisi (che in questo caso parla da sociologo) «equivalente a quello del vescovo». In altre parole: nella chiesa comunista, per mezzo secolo, «il sindaco era lo sposo della città, il padre di tutti i cittadini. Il partito lo cùcondava di speciali tutele, sottraendolo alla competizione. Prima ancora che eletto, era investito». Il sindaco di Bologna, riconosce uno studioso (serio) e consigliere comunale Ds, Fausto Anderlini, «sedeva sempre in posizione dominante e godeva di una specie di aura magica: era il partito che parlava al mondo». Il povero Vitali, che oltretutto era stato eletto direttamente, e aveva provato a divincolarsi dalla federazione con l'unico risultato di spaventare i dirigenti, l'hanno invece strapazzato fin dall'inizio. Una delegittimazione strisciante che procedeva insieme con processi profondi che da tempo investivano l'identità stessa del mondo comunista. Il primo dei quali è l'apocalitticissima sensazione che una storia era davvero finita: «crisi di compimento» secondo Anderlini. «E dal tempio, partendo dal trono, uscì una gran voce che disse: 'E' fatto!'» secondo San Giovanni. Ed ecco allora la discordia, i veti, le guerre fratricide tra compagni, i «caminetti» oligarchici, le procedure che saltano, i giornalisti dell'Unità che occupano la redazione. C'è un assessore che si dimette, e subito la responsabile della lobby femminista, che qui è denominata «Rose rosse», commenta: «Bene, così al suo posto subentra una donna». E quello ritira le dimissioni. Le sezioni non discutono, tanto meno votano; le tessere calano perché gli anziani muoiono; in alcuni dibattiti, sempre più astratti e narcisistici, i compagni si chiamano tra loro «dottore»; le feste dell'Unità assomigliano sempre più all'Oktoberfest; il Carlino, vecchio nemico, è arrivato a implorare che «si stava meglio quando si stava peggio», ridateci i «gasisti» (che era la milizia comunista) e la Sala Sirenella (dove t ''altro nacquero i Pooh). A Bologna è ancora meno evidente che altrove, ina certo più significativo: i partiti, 0 partito ha perso legittimità e rappresentatività, non ordina, non regola, non educa più. Esausto, si limita a perpetuare se stesso e i suoi codici, in realtà perpetua i suoi limiti. Pivi che un declino, sembra una decomposizione: anagrafica, organizzativa, antropologica, di funzione, di disciplina, di fantasia politica. «E nelle crisi, si sa - osserva Anderlini - escono fuori tutti i patacca del mondo». In questa realtà Prodi rischia di affondare il coltello. «0 sventura, sventura! 0 grande città, Bologna, la potente città in un attimo è venuto il tuo giudizio». Filippo Ceccarelli Anche le vecchie Feste dell'Unità ormai assomigliano all'Oktoberfest ENRICO BERUNGUER mmmM LA QUERCIA Ha perso rappresentatività: non ordina e non educa più Si limita a perpetuare se stessa e i suoi codici e in realtà porta avanti solo tutti i suoi limiti L'ex Presidente del Consiglio Romano Prodi Accanto Enrico Berlinguer l'ex sindaco Renato Zangheri e una festa dell'Unità ^^^^^^^^^ ^^^^^^^^^