Al Palafenice, «prima» con i fischi di Sandro Cappelletto

Al Palafenice, «prima» con i fischi Da tre anni a Venezia si fa opera sotto il tendone: un appello per la ricostruzione Al Palafenice, «prima» con i fischi Sonori dissensi alla regia di «Maria diRohan» VENEZIA. Da tre anni sotto il tendone. L'ultimo, il penultimo, quanti ancora aspettando la resurrezione della Fenice? Ripartiranno - si dice - presto i lavori, i contenziosi saranno finalmente chiusi. Intanto i massimi musicisti firmano appelli indignati contro la paralisi della ricostruzione, una rappresentante dell'orchestra legge un documento per chiedere di non dimenticare, appena prima che si alzi il sipario del Palafenice sulla «Maria di Rohan» di Donizetti. Nell'attesa, le scelte dell'ente lirico veneziano continuano a mantenere un profilo alto, senza perdere pubblico, senza rinunciare a coniugare tradizione e innovazione, rifiutandosi di aderire all'ipotesi suicida di dar vita a un «teatro di nicchia» che invece affascina altri mtellettuali. Vedremo presto quale strategia diventerà possibile praticare. Questa «Maria» è un'opera disperata: giunto alla fine del suo arco creativo, compositore dominante in Italia e a Parigi, Donizetti crea il nuovo titolo per Vienna, avverte la suggestione della capitale sinfonica europea, sente il logorarsi delle convenzioni drammaturgiche e si rinnova quanto può. La sinfonia iniziale è lo specchio delle pretese e dei limiti: si ahungano le ombre di Beethoven e Schubert, l'orchestrazione è preziosa, ma io sviluppo dei temi rimane debole e la mano gli scappa, fatalmente, nel concitato, ampolloso finale. I tre atti della tragedia hanno la forza concentrica di un vortice, e tanto più nella versione originale (Vienna, 1843), poi dilatata dallo stesso compositore e dai suoi msaziabili interpreti per soddisfare i palati parigini e italiani: quel torso compatto, di cui si erano perse le tracce, è tornato finalmente a vivere grazie alla revisione critica della partitura, curata da Luca Zoppelli. Il libretto di Cammarano ambienta la vicenda nella Francia secentesca di Richelieu, ma i fremiti di Maria, il rifiuto delle nozze, la passione per l'amante Riccardo sono fighe di una sensibilità tutta borghese, che ha poco da spartire con Madame Bovary e anticipa le scelte radicali delle protagoniste di Ibsen quando mandano ah'aria le famiglie. Debole la figura del marito, il duca di Chevreuse, che appartiene alla non rara categoria dei «cornuti e contenti»: non capisce nulla, fino a quando non glielo dicono, e allora si arrabbia moltissimo e spara. Giorgio Barberio Corsetti, al suo debutto in una regia lirica e anche scenografo, esalta questa concentrata dimensione di interni: la scena diventa quasi claustrofobica, lo spazio è colmato da pochi elementi, dei tapis roulant fanno scorrere, meccanicamente, oggetti e persone, i volumi sono creati dalle luci e dalle ombre, che escono dai corpi dei protagonisti e si dilatano, come portandosi via la loro anima, schiacciata dalle regole e dalle esigenze del potere. Al pubblico veneziano questa coerente essenzialità non è piaciuta, e i dissensi sono stati numerosi, sonori. Compensati dall'entusiasmo per la direzione di Gianluigi Gelmetti, tra i più sensibili interpreti donizettiani di oggi, nocchiero di un'orchestra omogenea, non del tutto affidabile nei passaggi solisti, e di una compagnia di canto che conferma il carattere nobile, già verdiano del baritono Carlo Guelfi (il marito tonto) e il temperamento di Giusy Devinu, soprattutto nella bruciante, splendida aria finale. Ma la sorpresa è il giovane tenore Fernando Portali (Riccardo, l'amante), interprete duttile, conscio di trovarsi a metà strada tra il bel canto e l'eroismo dei tenori che verranno, quando Donizetti non ci sarà più. Sandro Cappelletto Gianluigi Gelmetti raffinato direttore della «Maria di Rohan»; contestato invece il regista Giorgio Barberio Corsetti

Luoghi citati: Francia, Italia, Parigi, Venezia, Vienna