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l'Udo fratti»o solo I l'Udo fratti»o solo I E al confine con l'Albania un giorno di battaglia ZAGABRIA NOSTRO SERVIZIO Le ripetute minacce di un imminente intervento della Nato non hanno fermato i combattimenti nel Kosovo. Ieri una lunga e violenta battaglia si è svolta lungo il confine con l'Albania, nei pressi di Djakovica. Secondo fonti serbe le forze dell'esercito jugoslavo sono intervenute per impedire l'ingresso nel Kosovo di un folto gruppo di guerriglieri dell'Uck provenienti dalla vicina Albania. Due ribelli sono stati uccisi, due poliziotti serbi sono rimasti feriti. Nuovi scontri anche a Nord di Pristina, nelle vicinanze di Podujevo. I villaggi albanesi della zona sono stati pesantemente bombardati dall'artiglieria pesante jugoslava mercoledì, ma sinora non si ha notizia di morti o feriti: ancora ieri si sono sentite numerose detonazioni. Lungo la strada principale che da Pristina conduce verso Belgrado sono schie¬ rati decine di carri armati, autoblindo e batterie antiaeree. Con i cannoni puntati verso le colline, dove sono le roccaforti dell'Uck, i tank serbi hanno sparato senza sosta. Adem Demaqi, il leader politico dell'Esercito di liberazione del Kosovo, ha dichiarato che il solo negoziato cui sono disposti gli albanesi è quello per l'indipendenza. «Quando saremo pronti a negoziare, lo faremo, ma prima di cominciare vogliamo garanzie precise da Belgrado», ha detto in un'intervista alla tv slovena, aggiungendo che gli albanesi non vogliono ritrovarsi nella situazione bosniaca. «Non vogliamo la replica di quanto accadde in Bosnia, quando Sarajevo da una parte fu costretta a negoziare e dall'altra a combattere. Comunque l'unica posta in gioco per i negoziati è l'indipendenza» ha affermato Demaqi. Intanto sono emerse nuove prove che confermano la responsabilità di Belgrado per la strage di Racak, il villaggio a 25 km da Pristina dove le truppe di Milosevic hanno massacrato 45 civili albanesi lo scorso 15 gennaio. A quanto scrive il quotidiano americano Washington Post, intercettazioni telefoniche dei servizi segreti occidentali inchiodano le autorità jugoslave. «L'attacco fu ordinato da alti ufficiali di Belgrado che poi tentarono di coprire la propria colpa», scrive il giornale, spiegando che in una telefonata dello Stato Maggiore dell'esercito jugoslavo venne dato l'ordine alle forze sul campo - soldati e polizia speciale - di «usare la mano pesante» a Racak. Si trattava di una vendetta per la morte di tre poliziotti serbi uccisi qualche giorno prima dai guerriglieri dell'Uck. L'azione militare, in codice «Scova e distruggi», è stata insomma guidata direttamente da Belgrado. Il generale Sreten Lucik, ufficiale responsabile per le operazioni nel Kosovo, aveva infatti il compito di tenere informato il vicepremier jugoslavo Nikola Sainovic del procedere dei bombarda¬ menti contro Racak e del numero dei morti. Nell'ultima telefonata a Sainovic il generale faceva sapere al viceprimo ministro che le vittime erano 22. In seguito le truppe serbe rastrellarono altri 23 civili albanesi che vennero «giustiziati» sulle colline a ridosso del villaggio. Sarebbero stati proprio Sainovic e Lucik a dare l'ordine di manipolare le prove dell'eccidio, in seguito alle denunce dei verificatori dell'Osce giunti poche ore dopo tardi sul luogo del massacro. Il vicepremier ha ottenuto personalmente da Milosevic l'incarico di occuparsi del Kosovo. Sia lui sia il generale Lukic rispondono direttamente al presidente jugoslavo. Sainovic avrebbe inoltre fatto chiudere il confine con la Macedonia per impedire al procuratore capo del Tribunale internazionale dell'Aia, Louise Arbour, di entrare nel Kosovo per condurre l'inchiesta sulla strage. Ingrid Badurina