Mussolini ha sempre ragione, fino al cappio di piazzale Loreto

Mussolini ha sempre ragione, fino al cappio di piazzale Loreto Mussolini ha sempre ragione, fino al cappio di piazzale Loreto RECENSIONE Angelo d'Orsi SI è spesso discor�so, e non sempre volentieri, negli ultimi mesi, dell' opportunismo dei chie�rici, dell'inveterala ten�denza degli uomini di cultura a servire i po�lenti, della loro disponi�bilità a cambiare bandiera seguendo il vento, insomma del loro trasformi�smo, anche quando nobilmente moti�valo. È il vecchio, ma lull'allro che risolto discorso su intellelluali e fascismo; dietro, e sotto il quale, se possibile, è talora sollinteso quello più generale, e certo più generico, di una spesso asserita tendenza del popolo italiano al servaggio, o più analiticamente, per citare il vecchio Manzoni, a passare dal servo enco�mio al codardo oltraggio. Il ventennio mussoliniano offre pezze giustificative su entrambi i versanti. Le raccolte di documenti proposte da Carlo Galeotti, giornali�sta, dilettante ma appassionato stu�dioso di storia recente, non offrono novità di rilievo, trattandosi di cose noie non solo agli specialisti, grazie sia a precedenti volumetti divulgati�vi, sia alla non ancora del tutto cancellala memoria degli italiani del�le generazioni più vecchie. E tutta�via a leggerli l'un dopo l'altro questi RECENAnd'O SIONE lo si lesti non si può fare a meno di provare un bri�vido: verrebbe voglia di fare del sarcasmo da�vanti alle roboanti e vacue proposizioni dei federali, dei tanti zela�tori del regime a livello centrale e locale e so�prattutto dinanzi all'ineffabile prosa di Achille Starace (che in un risvolto di copertina diviene "Storace"...). E certo è difficile resistere al sorriso, magari un po' amaro, davanti alle centinaia di affermazioni variamen�te declinate che fanno del fascismo una religione, dell'obbedienza la vir�tù principale dei suoi adepti, della vita del duce qualcosa di sacro. Come stupirsi che la macchina propa�gandistica del regime, trasformalo in chiesa, produca una infinità di decaloghi, nella migliore tradizione delle religioni istituzionali? Ma sarebbe un errore ritenere che alla stesura di questi testi si dedicassero solo scribacchini di pro�vincia o oscuri camerati con vocazio�ne "letteraria". Basti ricordare che "il padre di lutti i decaloghi" nasce dal cervello fino e dalla penna arguta di Leo Longanesi, sul quale poi si co�struirà, nel dopoguerra, una fiorente letteratura sul 'leggendario" anticon�formismo. Fu proprio sua la frase che divenne immediatamente un im�perativo per tutti gli italiani: "Musso�lini ha sempre ragione", passando dalla carta stampala ai muri delle mille città d'Italia. In questa direzio�ne andò l'intero decalogo longanesiano, sotto il segno di una obbedienza cieca e furiosa: un bel paradosso, per un intellettuale, questo implicito in�vilo a non usare la ragione, ma, anzi, ad obnubilarla nelle spire della fedel�tà esasperala al "Capo" e a fare della politica un'arte dell'obbedienza. Il decalogo fu confermato ad abundanliam ed arricchito nel Va�demecum del perfetto fascista, libel�lo divertente ed esecrabile, sintoma�tico dell'altra tendenza del regime, accanto a quella accennala di farsi religione: ossia la velleità di creare, secondo l'intendimento di ogni tolalilarismo, "l'uomo nuovo", ossia "l'ita�liano di Mussolini". Una questione di modi, di siile, di linguaggio, di com�portamenti, oltre che di "valori": l'impagabile Starace si dedicò con cura maniacale agli aspetti più minu�ti dell'antropologia fascista, arrivan�do a proibire che i gagliardetti, an�dando o ritornando dall'adunata, ve�nissero portati "sotto il braccio o ravvolti nei giornali": l'ordine era "che ciascun gagliardetto abbia la propria custodia". Questi italiani prostrati nell'ado�razione del duce, padrone e signore, vero dio in terra, di cui i gerarchi del fascio erano i sacerdoti, di colpo divennero riottosi davanti al cata�strofico protrarsi dell'ultima guerra mussoliniana, quindi nascosero i di�stintivi dopo il 25 luglio del '43. Poi, dopo un ritomo di fiamma che coin�volse solo gli irriducibili di Salò, in un'apatica indifferenza di gran parte del Paese mentre una pur cospicua minoranza con la lotta partigiana provava a scuotere con se slessa la massa dei cittadini, arrivarono alle giornate dell'aprile del '45, quando l'inevitabile resa dei conti assunse spesso il significalo di un rifiuto inconscio del proprio passato, un passato di cui vergognarsi, nel quale si era slati soggiogati non solo dalla violenza, ma dall'apatia, dall'apologe�tica del quieto vivere, quando non da consonanze di poco nobili interessi con il regime. Ed ecco Piazzale Loreto, su cui, in un bel diario (sia pure dalla forma un po' artefatta) un altro giornalista, Andrea Damiano, scomparso negli Anni Sessanta, ci ha lasciato pagine davvero epiche. "Il Duce, dov'è il Duce?". Tutti volevano vedere lui.". Il fiero cipiglio e la mandibola voliti�va dell'uomo di Predappio erano diventali "un ceffo carnoso", una "maschera sfigurata come una vora�gine", davanti alla quale il popolo, quello stesso delle oceaniche aduna�le di entusiasmo vociante, "si accalca�va con poche grida, con una specie di odio stupefatto" e, constatata la real�tà dell'evento, "pareva improvvisa�mente tranquillo". Epilogo tragico e insieme grotte�sco del regime ma anche per molti versi di un popolo incapace del neces�sario esame di coscienza: in fondo, perché stupirsene se gli intellettuali traghettati dal fascismo alla demo�crazia hanno osservato lo stesso diseducativo silenzio? Tra servo encomio e codardo oltraggio, una vocazione esemplificata dal vecchio, ma tutt'altro che risolto discorso sui rapporti degli intellettuali con il regime fascista Carlo Galeotti Mussolini ha sempre ragione Garzanti, pp. 250, L. 25.000 e Starace e il vademecum dello stile fascista Rubbettino, pp. 139, L. 20.000 Andrea Damiano Rosso e Grìgio II Mulino, pp. 176, L. 20.000 DOCUMENTI E SAGGI

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