Gino & Michele: nostro regno per un tinello

Gino & Michele: nostro regno per un tinello Gino & Michele: nostro regno per un tinello RECENSIONE Bruno Gambarotta GINO Er Michele, intesi come Gino Vignali e Michele Moz�zati, non si negano niente. Anche il romanzo adesso. Sappiamo da fonte certa di un'ope�ra lirica in preparazione alla Scala che porta la loro firma. Per il poema bisognerà avere un po' di pazienza. D'altronde sono gli uni�ci, a parte un certo Alighieri, uno speziale di Firenze, a potersi per�mettere il lusso di firmare le loro opere con il semplice nome di battesimo. Veniamo al romanzo che non delude le aspettative e si rivela, ga va sans dire, di godibilissima lettu�ra. Siamo nella Milano che si prepara al primo boom del dopo�guerra, tra gli ultimi mesi del 1957 e i primi del 1958. Il plot è organiz�zato su due filoni che si incontra�no solo a pagina 77. Da una parte ci sono i rapporti di 4 volanti della polizia che nell'arco di 14 ore vengono chiamate per motivi ogni volta diversi al 190 piano della Torre Velasca e relazionano su quello che hanno visto senza ov�viamente capire niente. Gli autori non perdono l'occasione di rifare il verso allo stile dei verbah di poli�zia: «Le urla erano ben visibili anche dall'esterno». L'altro filone del racconto consi�ste nella ricostruzione affettuosa e dettagliata della vita di un quartie�re della piccola borghesia milane�se in quel tomo, di tempo. Con pagine da antologia che rievocano i verdi paradisi infantili poiché la storia è raccontata dal punto di vista di due amici inseparabili che a quel tempo erano bambini, inna�morati entrambi della stessa coeta�nea, Maria detta Madù: «Gli adulti non sanno quanto può amare un bambino». «Quando eravamo pic�coli pensavamo che i merluzzi avessero il fegato di una balena, tanto ce ne toccava. Se è per questo pensavamo anche che i piedi di porco fossero davvero di porco e che la chiave inglese si chiamasse cos�perché a Londra le porte si aprivano così, un bullone e via». Se posso offrire un mio piccolo contributo io da bambino pensavo che la corte dei Conti fosse un cortile pieno di nobili. Parafrasando Talleyrand possia�mo affermare che «chi non è nato prima delle auto parcheggiate fin sui marciapiedi e dei televisori in ogni stanza non conosce la felicità di essere stato un bambino». Il punto di vista dei bambini viene di volta in volta abbandonato e ripre�so poiché sarebbe altrimenti im�possibile narrare alcuni passaggi dell'intricata vicenda che sono ri�costruiti dagli stessi testimoni a più di quaranta anni di distanza e questo dà al racconto una strug�gente patina di nostalgia. Capitoli e paragrafi sono mar�chiati da precise indicazioni tem�porali, anno, mese, giorno, ora e minuti. Come quei thriller ameri�cani ipertecnologici con il sommer�gibile russo impazzito che sta per lanciare 24 missili sul Pentagono. Qui però si tratta di collocare nel tempo con precisione svizzera un giro d'Italia a tollini, una partita di biliardo al Bar Tabacchi della piaz�za, il dialogo di due coniugi a letto prima di addonnentarsi. Giunti alle ultime pagine capiremo la necessità di queUe indicazioni. Fermiamoci qui quanto alla tra�ma, non vogliamo rovinare il piace�re della lettura. Per cercare di dare un'idea di questo romanzo senza raccontarlo diremo che ci trovia�mo negli «immediati dintorni» (per citare Vittorio Sereni) del ro�manzo «La vita agra» di Bianciardi e del film «I soliti ignoti» di Mario Monicelli, due capolavori assoluti. Sono gli autori stessi a segnalarci queste ascendenze, riportando un breve dialogo con il quale Bianciar�di comunica all'attore Paolo Ciampin che Feltrinelli l'ha licenziato e che sta progettando il suo libro e citando, nelle ultime righe del romanzo, una battuta del film di Monicelli. E poiché fa un'appari�zione noi romanzo anche Strehler, disegnato con pochi tratti affettuo�si e perfidi alle prese con l'attore Ciampin che è più brechtiano di lui, mi sentirei di tirare in ballo anche il suo allestimento de «Le baruffe chiozzotte». Gino e Miche�le infatti ci propongono un calco strepitoso del parlato di quegli anni, con gli immigrati che per integrarsi si sforzano di parlare .milanese. Vedere il paragrafo dove il gelataio pugliese, già integrato, insegna al picciotto siciliano a smettere il passato remoto. Ci sono tutti i luoghi topici di quegli anni. L'elogio del tinello che «è una cosa che coltivi nella testa, jiù che uno spazio logistico». Il jar malfamato e quello per bene, dove si va a vedere «Lascia e raddoppia?» e «Il Musichiere», do�ve si gioca a biliardo e si organizza�no le prime gite in pullman a vedere la neve, con la sosta d'obbli�go al salumificio. Con l'ora della chiusura che è «l'ora della serran�da a mezz'asta, quando si misura il tasso alcolico dei presenti dalle craniate in uscita». Confesso che nel bar, fra il Vov e il Latte di suocera, ho sentito la mancanza della mitica Spuma, chiara o scu�ra. Queste e tante altre cose ci sono nel romanzo, compresa la dimo�strazione che i semi della corruzio�ne avevano già prodotto i loro frutti, solo che in quegli anni nessuno osava disturbare i mano�vratori. Oltre alla folla dei perso�naggi resta nella memoria del letto�re la Torre Velasca, un manufatto che sembra ipnotizzare i narratori che ambientano a Milano le loro storie. Ecco come la descrivono Gino e Michele: «una specie di fungolone spigoloso in cemento armato tinteggiato a pastello la cui parte alta, la cappella, era più larga del gambo e scaricava il peso attraverso una ventina di nervatu�re o pilastri inclinati a vista». «Neppure un rigo in cronaca», un romanzo sulla Milano prima del boom, negli immediati dintorni della «Vita agra» di Bianciardi e dei «Soliti ignoti» di Monicelli Gino S Michele Neppure un rigo in cronaca Rizzoii. pp. 203, L 26.000 ROMANZO

Luoghi citati: Firenze, Italia, Londra, Milano