Sontag: voglio una vita che cambia

Sontag: voglio una vita che cambia Parla la saggista-narratrice, in Italia per presentare il suo ultimo romanzo Sontag: voglio una vita che cambia «Ho scoperto di amare i valori americani» Claudio Altarocca MILANO DICEVANO che non stava ancora bene e invece Susan Sontag è già un'altra donna, emana di nuovo energia, intelligen�za. «Le donne sono un work in progress, crescono sempre. Sono gli uomini che si spengono», è la sua prima battuta. Ed è di un'eleganza straordinaria, tutta un intreccio di tonalità scure, preziosi calzoni di velluto operato, giacchetta di seta spiegazzata ad arte del celebre stilista giapponese Miyake, collana viennese di vetri sfaccettati, profu�mo di violetta e lunghi capelli neri con una riga bianca in mezzo raccol�ti da un nastro sulla nuca, sciolti poi con uno scatto del capo. Susan Sontag sta vincendo la sua seconda battagha contro il cancro, una guer�ra dolorosa (anni fa le hanno aspor�tato un seno, da poco l'utero), e la chemioterapia e le pillole al platino le hanno offeso le gambe: cammina a fatica, ma ora va megho, molto meglio. «Sono viva, mai stata cos�contenta», dice battendo le mani. E' un'altra donna anche perché, pur non rinnegando nulla del suo passato di critico della cultura e dell'arte, quei saggi che l'hanno resa famosa come la dark lady del pensiero americano di sinistra, dal reportage del '68 Viaggio a Hanoi a Stili di volontà radicale e Contro l'interpretazione, fino a Sulla foto�grafia e a Malattia come metafora, ora si sente del tutto scrittrice, autrice entusiasta di romanzi, co�me questo In America in uscita da Mondadori. Se cinque anni fa pub�blicò L'amante del vulcano, rivisi�tazione dell'amore fra Lady Hamil�ton e l'ammiraglio Nelson, adesso è la volta di un altro romanzo stori�co, l'odissea della più acclamata attrice polacca, Maryna Zalezowska, che nel 1876 emigra negli Stati Uniti con marito, figlio e amante e un'intera corte per fonda�re una famiglia utopica, una comu�ne agricola in California, e per un po' semina nei campi e spazza in casa, ma ben presto ritorna sulle scene e primeggia anche nel suo nuovo Paese. Romanzo complesso, abile nella tecnica, molto più scor�revole dell'altro. Signora Sontag, che tipo di scrittrice sente di essere? «Ho iniziato con la narrativa, sono diventata saggista, da dieci anni ho ripreso a scrivere romanzi: questo il mio percorso. I primi romanzi li vedo come musica da camera, questi ultimi come opere. Adesso sono più libera. Davvero. Una volta ero forse un po' troppo rigida, moralistica, la cultura ame�ricana non mi piaceva affatto e scrivevo animata da una sorta di antagonismo, che a suo modo era un condizionamento. Mi piaceva la cultura europea. E quando scri�vevo saggi non ero mai soddisfat�ta perché mi sembrava che rima�nessero fuori troppe cose; invece in un romanzo ora metto dentro tutto, anche idee buone per un saggio. Il regista Jean-Luc Godard ha detto che i miei saggi sono fiction, mentre i miei romanzi sono veri». Il suo rapporto con l'America è cambiato? «Mi sento americana non perché sono nata in America, ma perché riconosco in me i suoi valori di base, l'amore per la lotta, per il potere della volontà, per il cambia�mento. L'America non è altro che spazio, è movimento, come ai tempi dei cacciatori. Non ci sono i limiti che ci sono in Europa. Io per esempio sto imparando a 67 anni a suonare il piano e già strimpello un po' di Mozart. Questo è molto americano, e va bene. Ma non mi sono riconciliata, sono ancora se�vera con l'America: critico il go�verno e molti aspetti della vita civile e della politica estera. Non amo né il mio Paese né alcun altro Paese. Non amo la Superpotenza, ma la gente. Mi sento cittadina del mondo». Nel suo romanzo la protagoni�sta è un'attrice: questo ha un significato particolare? «Tutto il libro è un discorso sul teatro. Essere un attore vuol dire interpretare vite diverse, trasfor�marsi, non vuol dire che siamo condannati a recitare una parte lontana da noi, che abbiamo una maschera sotto cui si nasconde il volto. Tutt'altro. Persino Dio è un attore». Nel romanzo lei parla anche dell'origine ebraica e polacca della sua famiglia: un recupe�ro delle radici? «Niente affatto. Non ho alcun rapporto con la vita ebraica». Signora Sontag, qui lei vuole parlare solo del suo romanzo, ma l'attualità richiede una domanda. Oggi ci sono le ele�zioni negli Usa e lei è in Italia: non vota? «Ho votato tre giorni fa e spero che vincano i democratici. Anche se non c'è neanche dibattito fra Bush e Gore. Sembrano tutt'e due della stessa corrente nello stesso partito: entrambi difendono sol�tanto il business. Ma Gore è più completo, e disprezzo Bush: se vincesse costui, comunque, non lascerei il Paese; sarebbe una reazione infantile, bisogna parteci�pare attivamente alla vita pubbli�ca». E l'Europa le appare ancora criticabile? Lei ha attaccato le sue divisioni durante la guerra contro la Serbia. «Non voglio discutere di questo. Faccio solo una domanda: se la Germania nazista non avesse avu�to ambizioni espansionistiche, l'Europa sarebbe stata a guardare lo sterminio degli ebrei? Quel che è accaduto in Bosnia è terribile». Brevi domande, brevi rispo�ste. Negli Stati Uniti è uscita una sua biografia che critica la sua strategia per raggiun�gere il successo e pure il suo amore per le donne. Rispon�de qualcosa? «Non l'ho letta e non faccio nean�che un'azione legale perché costa troppo. E' un attacco della destra. Amore per le donne? Da quando sono diventata meno attraente per gli uomini ho trovato più complicità con le donne. Tutto qui». Il «New York Times» ha trova�to dodici citazioni senza vir�golette dalle sue fonti per il romanzo, come fossero plagi. «Una storia ridicola. Ho citato tutte le mie fonti». Come si definirebbe oggi? «Serena no, perché sono immanca�bilmente inquieta: voglio provare ancora molte cose, voglio una vita cos�lunga da poter vedere quanto peggiorerà». Susan Sontag: da Mondadori esce In America, romanzo storico su un'attrice polacca che emigra negli Stati Uniti alla fine deil'SOO