Quell'irrevocabile «doppia firma» di Filippo Ceccarelli

Quell'irrevocabile «doppia firma» Quante «dimissioni per restare». E Di Pietro, per essere chiaro, siglò due volte la lettera Quell'irrevocabile «doppia firma» Filippo Ceccarelli G HE fatica dimettersi, e che dilemma. Infatti di sohto conviene e non conviene; è generoso, ma rischioso; spesso vale la pena, però quasi sempre è meglio di no. Senza chiamare in ballo la coscienza interiore, né convocare le categorie assai impegnative del dovere o della responsabilità, le dimissioni si configurano come un gesto al tempo stésso avvenente e inopportuno, nobile e scomodo nella sua amarezza. E tuttavia: passato il tèmpo in cui, come diceva Alcide De Gasperi (nato pur sempre suddito degli Asburgo), le dimissioni non si preannunciano ma si danno, l'osservatore di Palazzo per forza di cose si aggrappa alla formula, la scruta, la sviscera, magari la rovescia prendendola per la coda. E nel suo professionale scetticismo non trova pace fino a quando non rinviene un fatidico aggettivo: «irrevocabih». In assenza della pregiudiziale irrevocabilità, si sente autorizzato a diffidare. Naturalmente, fino a prova contraria. Come tutti gli atti poUtici, le dimissioni hanno un loro rituale. Nessun dubbio, ad esempio, di fronte a una prosa che fa: «Tolgo il disturbo e non risponderò ad alcuna provocazione. Buon futuro, firmato Antonio Di Pietro. Ps. Prego vivamente di non propormi alcun invito al ripensamento perché le mie dimissioni sono irrevocabili, come testimonia questa mia doppia firma». E di nuovo: «Antonio Di Pietro». La lettera di dimissioni dell'ex pm da ministro dei Lavori Pubblici resta un saggio di inequivocabile deter�minazione. Ma forse anche per questo resta impressa nella memoria, oltre che per la cifra stilistica, con tanto di applicazione grafica. Un po' sospette suonano al contrario le formule tipo «trarre le dovute conseguenze» e «rimettere il mandato nelle mani» di chi a volte lo si immagina, altre volte lo si sa questo mandate e ben disposto a ridarlo. Sulle dimissionirientrant' esiste in Italia un'abbondante e motivata letteratura. La cultura politica democristiana, nella sua saggezza, riteneva l'.auto-esonero un fatto pericolosa�mente traumatico, quasi una violazione dell'ordine naturale delle cose. Pochissimi democristiani si dimisero veramente, col risultato che li si ricorda quasi tutti: Dossetti, Gava padre, Cossiga dopo l'uccisione di Moro. Difficile sarebbe invece il calcolo di quelli che si dimisero «per restare». Basti qui il ricordo della durata minima (otto ore) del congedo di De Mita da presidente del Consiglio nazionale; mentre il record di rinuncia prolun�gata e apparente appartiene a una dozzina di sottosegre�tari dell'area Zac che mollarono solo formalmente i loro incarichi, rimanendo a bagnomaria per diversi mesi. Al culto degli equilibri, dei contrappesi e delle combinazioni, i governanti di un tempo sacrificarono volentieri la potenza espressiva e l'energia liberatoria del beau geste. Quando proprio non ne potevano fare a meno ed erano costretti a schiodare, invocavano dimen�sioni ultramondane: «Mi sono dimesso spiegò Gava figlio uscendo dal Viminale (per malattia e per campagna dell'opposizione sul caso Cirillo) perché me l'ha chiesto Nostro Signore». E pareva convinto, e come lui migliaia di amministratori, presidenti di casse di Risparmio, di camere di commercio, di enti statali e parastatali, direttori di tg. Però alla fine esagerarono, i democristiani. Ma quella loro istintiva renitenza, quel loro strenuo aderire alle poltrone fecero in tempo a trasmetterlo a tutti gb altri protagonisti della transizione tra Prima e Seconda Repubblica. E' in questa fase, e quindi a partire dall'inizio degli Anni Ottanta, che si segnala anzi la nascita e il rapido diffondersi di un inedito istituto pseudogiuridico fai-da-te: r«autosospensione». Dal verti�ce dello Stato, inteso come Quirinale, all'ultimo pe'me beccato in aula mentre vota con la tesserina del collega assente, si registrano diversi casi di «auto-sospesi». Così: a proprio piacimento, e senza nemmeno il fastidio, né tantomeno l'imbarazzo di pronunciare invano la parola dimissioni. Antonio DiPietro lascid dopo pochl mesi ilmlnistero dei Lavorl Pubblici

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