1999 la morale fa autogol di Paolo Mieli

1999 la morale fa autogol Torna il pamphlet di Salvemini contro Giolitti: una battaglia di nobili princìpi dagli esiti politicamente perdenti 1999 la morale fa autogol Paolo Mieli ——————-— L 7 marzo del 1909 si tennero in Italia le ulti�me elezioni a suffragio censitario. Andarono alle urne meno di duo milioni di persone, cioè quasi un quinto dei maschi mag�giorenni. In ogni caso, la percentua�le dei votanti, ancorché fossero ancora pochissimi gli aventi diritto al voto, fu maggiore che in prece�denza. Alla guida del governo c'era da sei anni l'uomo politico destina�to più di ogni altro a lasciare il segno sulla complessa stagione che precedette la Prima Guerra Mon�diale e l'avvento del Fascismo: Giovanni Giolitti. Epperò in quelle elezioni Iche pure gli arrisero) Gio�litti ebbe un inciampo a causa della candidatura di un suo fedelissimo, Vito Du Bellis, nel collegio pugliese di Gioia del Colle. Diciamo meglio: Giolitti, nonostante la vittoria al volo, fu costretto a pagare un altis�simo prezzo di immagine per i melodi brutali ai quali De Bellis e i suoi fecero ricorso in quella torna�ta elettorale. Non che quel genere di metodi Ibrogli, intimidazioni, botte e pistolettate contro gli avver�sari) fossero stali fino ad allora sconosciuti. Anzi, le coso erano andate talvolta anche peggio, so�p�allullo al Sud, nello elezioni che si urlano succedute dall'Unità d'Ita�lia in poi. Particolarmente in quelle del I87G in cui si obbo una grande affermazione della Sinistra nel Mezzogiorno grazio anche al ricor�so a quosli sistemi illociti tollerali rna sarebbe più giusto diro: incorag�giali dal ministro doll'Inlorno Giovanni Nicolera. In quei cinquant'anni colui che aveva in ma�no il Ministero dell'Intorno e i prefelli «faceva» lo elezioni, cioè si assicurava il successo accantonan�do ogni scrupolo pur di ottenere il consenso di quel piccolo coqxj eleltorale che avev;i liiolo por vo�lare (il suffragio universale maschile sarebbe sialo introdotto solo nel 1912 por le elezioni elio si sarebbero poi tenute nel '131. Ma in quel marzo del 1909 De Bellis e Giolii.ii ebbero la sfortuna di imbatter�si in un «ossorvalore» mollo allen�to: Gaetano Salvemini. E, quanlomeno sotto il profilo dell'immagi�ne, por ambedue (in particolare per il presidente del Consiglio) fu una rovina. Il carattere dello storico Salvemini reso ancor più saldo dall'esser stato messo a dura prova qualche mese prima, il 28 dicembre 1908, dal lerromolo di Messina in cui aveva perso la moglie, la sorella e cinque figli trasformò la vicenda di Gioia del Colle in un caso nazio�nale. La vibrala denuncia doi brogli in quel collegio partor�un libro, «Il ministro della mala vita», destina�to a divonlaro il lesto di riferimen�to per l'opposizione anligiolittiana, di destra e di sinistra. E forse qualcosa di più: quel volumetto e le vicende che lo accompagnarono fecero venire alla luce un'Italia in cui si riconoscevano quasi all'unaniraità le giovani generazioni che prendevano la parola in quei primi anni del Novecento o buona parte dolio nuove love culturali decisa ad impugnare la «questione mora�le» anche a costo di mettere in crisi il pur aperto e progressista esta�blishment politico liberale che pro�prio allora iniziava a dialogare con i Socialisti. Talché la campagna anligiolittiana che trovò ampio spazio sulle pagine del Corriere della Sera diretto da Luigi Albertini ebbe una parte decisiva nel far sprofondare l'Italia che cercava una nuova stabilità su assetti più democratici. Chiariamo subito: nel merito dei fatti Sa Ivemini aveva tulle le ragio�ni e Giolitti tutti i torti. L'elezione di De Bellis a Gioia del Colle avven�ne in condizioni assai riprovevoli. Il ricorso ai mazzieri fu ampiamen�te documentato. Lo scandalo fu grande. «Dal nuovo parlamento», scrisse il giornale dei socialisti, r«Avantil», all'indomani del volo, «dove uscire non solo la protesta per simili sistemi che abbassano l'Italia al IìvrIIo delle ropubblichollo sud-americane, ma la volontà che i responsabili di simili vergo�gne non siano impuniti e che la tresca immonda del Governo con la malavita non debba più rinnovarsi. Per l'onore dell'Italia». Noi suo libro Salvemini non aveva fatto ricorso a perifrasi: «Dal 2 marzo in poi Vito De Bellis fu il re, lo zar, il Dio della sua città. Chi non era riconosciuto come suo amico non poteva circolare per le strade. Nei portoni delle case dei più autorevo�li seguaci del marchese (il rivale di Do Bellis, ndr.), i debellisti faceva�no scoppiare delle bombe di carta. I questurini guardavano e lasciava�no fare». E ancora: «Questo stato incredibile di anarchia, promosso e tolleralo dalla questura, si produce costantemente in tutte le città meri�dionali, allorché vi si combatte una lotta politica o amministrativa, in cui, come in quella di Gioia del Colle, il governo sia impegnalo a fondo e debba perciò alleare alla questura la malavita. Nel marzo 1909 i debellisti giolittiani di Gioia del Colle si credevano cosi sicuri del fatto loro e il disordine morale era salito a tal punto che finanche tre guardie ca'mpestri debelliste furono sorprese a... rubare cipolle. Nonostante che tutto lo stato mag�giore debellista abbia mosso in loro soccorso una caterva di testimoni falsi, sono state condannate a quat�tro mesi di reclusione nell'udienza del 28 settembre 1909 dal Tribuna�le di Bari; ma si capisce bene che saranno graziate e che nelle altre elozioni le ritroveremo più debelli�ste e più guardie campestri che mai». Ed eccoci al vero punto di que�sta storia. Salvemini, soprattutto dopo che la giunta di Montecitorio convalida a maggioranza l'elezione di De Bellis, ha un moto di sfiducia nei confronti della giustizia e dubi�ta anche della sua parte politica. In effetti la giunta delle elezioni era stata «più realista del re, vale a dire più giolittiana di Giolitti», scriverà «Il Secolo», quotidiano dei democra�tici milanesi; «Essa con un voto scandaloso ha proposto di convali�dare l'elezione di Gioia del Colle. L'avvocato dell'on. De Bellis non domandava tanto: egli che conosce�va, forse meglio degli altri, quanto era avvenuto in quella elezione, si accontentava di chiedere che si rifacesse l'elezione. Probabilmente gli sembrava fosse già una grande vittoria ottenere di non mandare l'incarto all'autorità giudiziaria». Di qui quel moto di reazione mora�le che va al di là dei confini di Gioia del Colle e che è all'origine della pubblicazione allora (e della ripub�blicazione adesso per gli Archi della Bollati Boringhieri) de «Il mi�nistro della mala vita». E, per quel che riguarda l'oggi, dell'acuto sag�gio di Sergio Succhi che accompa�gna la riedizione del celebre testo salveminiano. Per comprendere meglio la gene�si degli screzi tra Salvemini e la Sinistra è opportuno ricordare che la prima persona a cui lui si indiriz�zò per la pubblicazione del libro fu il suo amico socialista Ugo Guido Mondolfo. Questi si rivolse all'edi.tore Formiggini ma non no ebbe una risposta incoraggiante. Al che scrisse a Salvemini una lettera che quest'ultimo non grad�affatto. Gli scrisse che l'editore si era fino a quel momento «dedicato soltanto a pubblicazioni filosofiche e, pur non traendone gran frutto», sperava «per il seguito vantaggio dalla fama creatasi di editore che mira ad un ideale»; «Ora», aggiungeva, «una pubblicazione del genere di quella tua (cioè "Il ministro della mala vita", ndr) sarebbe assai lontana dalla routine che egli segue e par�rebbe accolta dall editore con la speranza di giovarsi dello scandalo che essa può suscitare. Perciò egli non accetta». L'esponente sociali�sta continuava poi la lettera con un altro genere di considerazioni: «Che valore avrebbe», domandava all'amico, «l'opuscolo all'indomani della convalidazione di De Bellis?». Il tutto, secondo il leader socialista, poteva apparire come un gesto «donchisciottesco», tale ria suscita�re al massimo qualche reazione di «sdegno platonico ed inerte negli animi che si salvano ancora da questo naufragio di ogni idealità morale». «Perché», aggiungeva Mondolfo, «vorresti assegnarti l'uf�ficio di sognatore impotente che abbia rinunziato ad ogni speranza e gridi e lotti solo perché non gli riesce di star zitto e quieto?». Salve�mini non gradi. E non raccolse l'esortazione. Il libro fu pubblicato allora con l'aggiunta delle denun�ce parlamentari, di Giuseppe De Felice-Giuffrida e Napoleone Colajanni, di altre malefatte dei giolit�tiani nel mezzogiorno su iniziati�va di Giuseppe Prezzoline In quei mesi a Salvemini capitò di notare strane assenze dei deputa�ti socialisti e dell'Estrema sinistra nei più delicati momenti di voto su queste vicende. E prese ad additare alcuni parlamentari della Sinistra come «giolittiani in maschera». Co�sa che gli provocò una dura reazio�ne da parte di un altro suo impor�tante amico socialista, Oddino Morgari, che gli scrisse rimproverando�gli una sorta di «monomania» («Il tuo metodo di sistematica diffama�zione di coloro che lavorano è deprimente»), e definendo «unilate�rali e settari» quei suoi giudizi che lo inducevano ad acn-sare buona parte della sinistra di criptogiolittismo. Per poi domandargli: «Tutti gli atti e i fatti nostri non si debbo�no spiegare che sotto l'angolo visua�le tuo, del giolittisrao?». Salvemini non se ne diede per inteso. Non gli appariva un'attenuante la circo�stanza che Giolitti all'epoca dialo�gasse con i socialisti. Salvemini pensava che si stesse addirittura preparando un governo di Giolitti con l'Estrema sinistra per l'indoma�ni e che, tranne qualcne eccezione, l'intera sinistra italiana stesse sven�dendo la questione morale per ap�pagare le proprie ambizioni mini�steriali. Così, a poco a poco, Salvemini si staccò dal partito socialista sugge�rendo ai compagni sensibili alle sue istanze (Oddino Morgari e Giusep�pe Emanuele Modigliani) di fare gruppo a sé: «Sareste in tutti una mezza dozzina; ma sei persone, che vanno d'accordo e agiscono seria�mente, valgono molto di più di cento persone che hanno il solo programma di aspettare i cenni di Giolitti». Furono poi le battaglie per il suffragio universale, per 1 in�tervento in guerra e per la propor�zionale. Ma sempre tenendo alta la bandiera della questione morale contro Giolitti; «Ci sono necessità morali superiori alle stesse riforme generali», scriveva; «Se il suffragio universale ci fosse offerto dall'ono�revole Giolitti, ma l'onorevole Gio�litti ponesse la questione di fiducia sul suffragio universale, io neghe�rei la fiducia e respingerei il suffra�gio universale perché il suffragio universale concesso a quel patto e da quelle mani nascerebbe disono�rato». Alle elezioni pohtiche del ' 13, le prime a suffragio quasi universa�le, Salvemini decise di candidarsi lui stesso. Nel collegio della sua città, a Molfetta, e a Bitonto. La sua impressione immediata fu che le, cose stessero addirittura peggio che nel 1909 e che ci fossero gli estremi per ripubbhcare «Il mini�stro della mala vita». Scrisse al suo amico Ugo Ojetti chiedendogli di scendere in Puglia: «Il solo fatto che si sappia che Ugo Ojetti, redatto�re del "Corriere della sera", è a Molfetta paralizzerà la prefettura. Se sono abbandonato solo da tutti, sarò come accoppato in un corrido�io buio. Mi accuseranno di essere mazziere... se reagirò. Io ormai sono sicuro che nell'ultima settima�na avverranno qui fatti inauditi, se non viene una persona estranea. La sola cosa di cui la prefettura ha terrore è la stampa. Io sono sicuro che se tu vieni a Molfetta annun�ziandoti all'albergo Ugo Ojetti, re�dattore del "Corriere della sera", qui non avviene più nulla perché temeranno allora di essere denun�ciati al paese. E Giolitti non vuole lo scandalo. Mi rivolgo a te come ad ultima àncora sicura di salvezza. A me basta che tutti sappiano che tu sei qui, che vedi, che osservi, che potresti denunciar la cosa sul "Corriere"». Ojetti andò, denunciò. Ma violenze da parte dei gruppi capitanati da Nicola Ungaro «il Tignoso» e brogli ci furono ugual�mente. E Salvemini fu clamorosa�mente trombato in ambedue i colle�giVenne poi la Prima Guerra Mon�diale e il giornale di Salvemini, r«Unità», fu in prima fila nella battaglia interventista. Subito do�po, nel '19, le prime elezioni con il sistema proporzionale, Salvemini decise di scendere nuovamente in competizione, in una lista di com�battenti, nonostante si sentisse vec�chio: «Il guaio è che non sono più giovane. I 46 anni cominciano a pesarmi; dopo un'ora di discorso in piazza sono un cencio. Non posso far più di tre comizi al giorno!». Dalla prima pagina del «Corriere della sera» intimò al presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti di non comportarsi come Giolitti. «Mi pare impossibile», disse a pro�posito di Nitti, «che egli, a 53 anni, desideri che io prenda con lui un abbonamento come quello che pre�si con Giohtti nel 1904 e a cui soijp rimasto fedele finora e rimarrò fedele sempre». Nitti cercò di evita�re quell'«abbonamento» di Salvemi�ni e non mobilitò i prefetti alla maniera dei suoi predecessori. Di scontri però ce ne furono lo stesso e in uno di essi trovò la morte il «Tignoso» di cui s'è detto prima e che ora era stato promosso con il nomignolo di «Re Nicola». Stavolta Salvemini fu eletto. Ma volle dare lo stesso alle stampe una seconda edizione integrata del suo libro contro Giolitti. Il quale Giolitti sta�va per tornare, sia pure per un breve periodo, alla Presidenza del Consiglio. Cos�come la prima volta questo lungo duello era stato interrotto dalla guerra, fu poi la volta del fascismo. In odio a Giohtti, Salvemi�ni nel '23 ebbe qualche iniziale indulgenza nei confronti di Musso�lini. Ma già dal '25 fu un convinto antifascista, fondò con i fratelli Rosselli il «Non Mollare», lasciò l'Italia. Giolitti mor�nel 1928. Ma la lunga storia che divise i due grandi personaggi non era ancora finita. Nel 1945 Salvemini scrisse la prefazione a un libro di un giovane storico italo-americano, Arcangelo William Salomone, in cui sembrò che temperasse o addi�rittura ritrattasse il suo giudizio su Giolitti. Benedetto Croce colse l'oc�casione per punzecchiarlo e raccon�tare un perfido aneddoto: nel '20, durante un intervento di Salvemini alla Camera, Giolitti che era presi�dente del Consiglio, si rivolse allo stesso Croce chiedendogli chi stes�se parlando e quando questi gli disse chi era, Giolitti avrebbe com�mentato: «Bah? Non riusc�eletto deputato e se la prese con me». Fu poi la volta del segretario del Pei, Palmiro Togliatti, che nel 1950 pronunciò a Torino un discorso di grande rivalutazione di Giolitti nel quale scelse parole assai dure con�tro «la inconsistenza delle condan�ne dettate da pura ispirazione mo�ralistica». Ha ricordato lo storico socialista Gaetano Arfé che allora aiutava Salvemini a raccogliere le sue carte meridional e adesso ha scritto una bella nota di chiusura per il libro ripubbhcato da Bollati Boringhieri, che Salvemini soffr�moltissimo per quei giudizi di Cro�ce e di Togliatti. Sicché, prima di morire nel 1957, scese nuovamente in trincea contro Giolitti (che, come s'è detto, era scomparso nel '28) sottolineando come tra lui e Musso�lini se c'era stata una differenza questa «era in quantità e non in qualità». «Giohtti», scrisse Salvemi�ni, «fu per Mussolini quel che Giovanni il battezzatore fu per Cristo: gli preparò la strada». E' sempre cos�quando ima persona di salde convinzioni porta m pohtica la «questione morale»; una volta preso un «abbonamento», poi è impossibile disdirlo. Questa vicenda lo portò a staccarsi dal partito socialista che gli rimproverò d'essere diventato un donchisciotte La sua intransigenza contribu�a bloccare il dialogo fra liberali progressisti e sinistra.riformista favorendo di fatto i disegni della destra Con «Il ministro della mala vita» lo storico trasformò in un caso nazionale i brogli elettorali a Gioia del Colle Disegno di Matteo Pericoli. In basso Paolo Mieli