Tango in valigia

Tango in valigia Tango in valigia Laura Pariani: ritorno m II'A iljiiÉÉiifi degli antenati emigrati e dell'adolescenza, resperienzafcÉÉ^paesamento e dello sradicamento, il tentativo di recuperare quel passato attraverso la narrativa, i suoni, le atmosfere ONO cresciuta in una zona pove�ra della Lombardia, a ridosso della valle del 1 icino: una terra di brughiera, di sabbia e pietre, dove il vomere dei miei antenati conla�dini si bloccava a ogni spinta. Abbandonare questa terra fu sol�lievo per la gente del mio paese: partirono in tantissimi, con appe�na una bisaccia e i vestiti che avevano addosso, che a quei tem�pi (tra la fine dell'Ollocenlo e gli inizi del Novecento) dalle mie parti si faceva lelleralmeme la fame; nel borsellino un ritratto di famiglia e la medagliclla della Madonna dell'Aiuto, nella memo�ria solo il sapere dei poveri, che è poi quello delle sementi e delle stagioni. Per questo io l'America l'ho conosciuta prima di lutto nei racconti dei vecchi di casa: i tre mesi di velierodanlo durava la traversala intorno al 1880), l'ab�bondanza del mangiare carne, lo spazio nnorme e vuoto della Pam�pa, i bordelli delle città a cui si andava in gruppo quando si ave�va fame di donne. Ci venne anche mio nonno, nel '2(5, per sfuggire a un regime in cui non si riconosceva. Sperava che Mussolini cadesse presto, ma (ini per restare in Argentina qua�rantanni, nei cantieri impegnati alla costruzione di dighe sulle Ande. Tutte cose del passato, sicura�mente. L'Italia ora è molto cam�biala. E, stringe il cuore dirlo, tutto quello cne fecero quegli emigranti, a volte sembra come se non sia mai stato. Perché con il benessere arriva anche la memo�ria corta. La peste dall'oblio non l'ha inventata Mórquez in "Cien afios de soledad": nessuno in Ita�lia ricorda più il partire di quegli uomini, nessuno li ha raccontati lino in fondo, a volte mi vien da dire; forse nessuno li ha mai davvero conosciuti, anche se l'uno o l'altro vivono ancora in un aneddoto che a volte racconta ancora qualche pronipote; oppu�re in alcuno lettere sgrammatica�le e ingiallite che per caso posso�no saltar fuori da una vecchia scatola di latta. Lettere scrìtte in occasioni di disgrazie («Se n'è andato il Giusapén della Cà Rus�sa...»), che servivano nel gran frangente della morte por gravare di un po' di senso la vita che era finita («L'era un gran brav'uomo...»), tentando di fissare nel ricordo un'assenza. Di sicuro sento molto vivo questo passato di racconti e lette�re, perchè anch'io, nel mio picco�lo, ho palilo un'esperienza simile. Infatti mi sono ritrovata qui in Argentina negli Anni 60. Ero orna�si una bambina allora. Ricordo il mio vioggio in nave, la prima notte che apparve la Croce del Sud; con tutti i sudamericani accalcati sui ponti, gli occhi al cielo, aspettando che il solo tra�montasse in un silenzio quasi di chiesa, che pareva di sentire il ballilo di un mucchio di cuori e a un tratto un grido unanime, corale, perché le auattro stelle erano spuntale. Credo di non aver mai vissuto un momento della mia vita in cui mi sia sentita più sola: i sudamericani salutavano il loro cielo e io mi accorgevo di essere straniera e che la mia casa era immensamente lontana. Sot�to un cielo estraneo. Più tardi, nella casa di mio nonno in Patagonia, la sensazione di questo spazio «altro» si è appro�fondita dentro di me: colpa di quella pianura dove il tempo pare�va smettere di pulsare. Con una sensazione di rallentamento che traversava i giorni dall'inizio alla fine, ma traversare non è la paro�la giusta, che non dice quella pesantezza che sentivo venir su dalla terra, ogni volta che aprivo gli occhi al mattino. Ogni cosa straniera, forse per l'impossibilità di instaurare rapporti col noto, per la mancanza di punti di riferi�mento, per la solitudine dei luo�ghi. Credo che l'esperienza dello spaesamenlo sia una delle situa�zioni più traumatiche che nella vita possano capitare: non solo la necessità di parlare in una lingua diversa da quella che si usa per pensare con la conseguenza di continui e spossanti cortocircuiti mentali -, ma anche l'essere co�stretti a imparare lo spazio di un'altra terra, un altro continen�te; un «altro cielo», mi verrebbe da dire ricordando un malinconi�co racconto di Julio Cortàzar, dove strade argentine e europee dapprima si mescolano e poi si sovrappongono in una sorta di telaragna di sogni che combacia filo per filo con quella della vita». Ho detto: piccola personale esperienza di emigrazione argen�tina piccola, ma che mi ha segnato profondamente, perché coincideva con l'adolescenza, e quindi con una fase cruciale della vita. Tant'è vero che, una volta tornata in Europa ho cominciato a sentirmi a disagio, non più in perfetta sintonia con l'Italia; in�somma, a provare un certo strug�gente desiderio di quello spazio americano che, mentre ci vivevo, mi faceva un po' paura; finivo con il tornarci di continuo fantastican�do: e come avrebbe potuto essere il contrario, visto che ero partita bambina e laggiù ero diventata adulta? Da qui è nato in me il tentativo di recuperare quel passato argen�tino attraverso la lettura della narrativa sudamericana, co�struendomi una personalissima geografia di quella parte del mon�do, che andava da Macondo di Gabriel Garda Marquez alla città di Santa Maria di Juan Carlos Onetti, dallo Stato del Pian de Ahajo di Ihargùengoiiia alla Bue�nos Aires misteriosa di Silvina Ocampo o alle isole di Maria Luisa Bombai. Sempre ho conti�nuato a cercare nei libri il sapore della mia esperienza sudamerica�na, divorando le parole di questi autori in maniera totalizzante e cannibalica per farle profonda�mente mie. Ancora adesso, se ascolto il bandoneon di Piazzolla o la voce profonda di Atahualpa Yupanqui che canta la «Chacarera de las piedras», ho l'impressione di rivivero certe emozioni della mìa adolescenza argentina a Buenos Aires l'affacciarmi alle finestre sulle palme di Santa Catalina e in Neuquén il fremito delle raffiche di vento intomo alla casa di mio nonno, che sorgevano all' imprevista, come venendo da nes�sun luogo. E' nostalgia, questa? Non so, faccio fatica a usare questa paro�la, soprattutto perché so che rischierehbe di far pensare banal�mente a un Sud America da carto�lina. Penso piuttosto a quel senso di perdita, di irrecuperabilità, di esilio, che si ritrova di continuo nelle pagine di scrittori argentini come Cortàzar o Puig: stranieri ovunque, Olissi che non riescono mai a tornare alla propria casa, condannati a viaggiare «teniendo siempre el corazon mirando al sur», per dirla con le parole di un tango di Eladia Blàsquez. Sono convinta che nasca pro�prio da quella lontana esperienza argentina l'importanza che nel mio immaginario hanno assunto certe immagini di spaesamento e sradicamento, per cui nei miei libri si incontrano tanto spesso personaggi che, brutalmente stac�cati dal proprio contesto natura�le, conservano una forte coscien�za del proprio luogo di nascita. Un senso forte dell'abitare, sia come stato in luogo, come un esserci, sia come un essere lontano da, un moto da luogo. Come pure, legata a questa tragedia della lontanan�za, la ricerca delle mie radici che trovano la loro espressione più vera nei suoni del mio dialetto, nella sua «indole austera» cosi direbbe Leopardi, considerando i suoni chiusi, nasali, scuri, che vi abbondano. Dialetto che per me non è lingua bassa, ma profonda: lingua materna per eccellenza, non solo perché insegnatomi dalle donne della mia famiglia, ma anche perché in questa lingua mi sono state trasmesse le esperien�ze più importanti, quelle dell'affet�to e del dolore. Lingua di morti, dirà qualcuno; e non lo nego, anzi, confesso che a volte quasi mi sembra che i miei libri non si rivolgano ai vivi (e meno ancora alle generazioni a venire) ma piut�tosto vogliano consolare la pove�ra gente del mio paese che ha sopportato la vita come un «pondizi» a cui era impossibile sottrarsi. Ora, finendo di scrivere la mia relazione per la Feria del Libro di Buenos Aires con la finestra aperta sulla notte, il rombo dell' avenida 9 de Julio là fuori, la brace della sigaretta nel buio mi sento presa in un intontimento tra sogno e realtà: è la solitudine in cui sto vivendo le emozioni di questo mio ritomo a Buenos Ai�res, la malinconia che mi prende alla gola come un altro silenzio; è l'anima che a quest'ora della noche si svuota del presente e allora vi entra tutto il resto: visi lontani, certi odori, il sapore di un sorso di mate, l'eco del «Café de los Angelitos» di Càtulo Castillo: «Yo te evoco, perdido en la vida...». In�somma, è il ricordo delle notti di trentacinque anni or sono, rompi�capo dell'insonnia. E' cominciato tutto qualche giomo fa, appena arrivata qui, quando sono andata per prima cosa a rivedere la via dove abita�vo, le palme della chiesa di Santa Catalina che, quindicenne, guar�davo dalla mia finestra. Sarà sta�ta la sorpresa di trovare che la casa del mio Teresio, dove avevo ambientato la «Ballata del sogna�tore», è stata trasformata nel Centro Borges; oppure sarà stata la luce del cielo, limpidissima, quasi translucida dopo una notta�ta di pioggia; o forse, più semplice�mente, il ritrovare intatta la parti�colarità di quella via che fin da allora mi è sempre parsa un extranno enclave de tranquilidad y de sosiego... chi lo sa, ma mi sono sentita all'imprevista immersa in un forte senso di irrealtà. Cos�adesso, mentre tendo l'orecchio alle storie di questa città immensa e straordinaria, che mi palpitano intomo e chiedo�no di essere scritte, mi sembra finalmente di comprendere quel�la strana sensazione che spesso negli anni passati ha accompagna�to i miei sogni el bianco de la nada, del ricordo, luz irrecuperable... -, la forte impressione di non essermene mai andata via da questa pianura argentina definiti�va e totale. Non so davvero cosa avverrà della mia vita. Mi è chiaro soltan�to che qui a Buenos Aires dovrò tomare, e non per pochi giomi soltanto come stavolta: qui stan�no, infatti, ancora vive e doloro�se, delle esperienze del mio passa�to con cui è ora di chiudere i conti. Che mi viene da sussurrare nel buio le parole del tango di Horacio Ferrer: Morire en Buenos Aires, sera de madrugada, guardare mansamenle las cosas de vivir: mi pequena poesia, mitabaco, mi tango, mi puna dodeesplin... Morire en Buenos Aires, sera de madrugada, que es la bora en que mueren los que saben morir. Flotarà en mi silencio la mufa perfumada, de aquel verso que nunca yo te pude decir. Andare tantas cuadras... y alla en la Plaza Francia, comò sombras fugadas de un cansado ballet, repitiendo tu nombre por una calle bianca, se me iran los recuerdos enpuntitasdepie. Morirò a Buenos Aires, sarà verso il mattino, guarderò stanca�mente quello che resta in me: le mie povere storie, il mio tabacco, il mio tango, la mia manciata di tristezza... Morirò a Buenos Ai�res, sarà verso il mattino, che è l'ora in cui muoiono quelli che sanno morire. Sul mio silenzio aleggerà la muffa profumata di miei verso che mai ho potuto dirti. Percorrerò tanti isolati e... là in Piazza Francia, come ombre fugaci di uno stanco balletto, ripetendo il tuo nome lungo una strada bianca, se ne andranno i ricordi in punta di piedi. Ma per stanotte basta con i tanghi. Y chau, vamos a dormir. Anni 60 Ero quasi una bambina, ricordo il viaggio in nave, la prima notte che apparve la Croce del Sud Dovrò tornare a Buenos Aires, città colma di storie, o forse mai ho lasciato questa pianura definitiva e totale Uno scampolo d�autobiografia In (armadi racconto: Laura Pariani ha recentemente svolto questa relazione alla Fiera del Libro di Buenos Aires. Altri scrittori italiani sono intervenuti alla manifestazione, daLucaDoninclli a Maurizio Maggiani, da Nico Orengo a Lorenzo Mondo, da Paolo Maurensiga Sandro Veronesi. La Fiera ha coinciso con la settimana dedicata alla cultura italiana. L'ha promossa il Premio Grinzane Cavour, con il patrocinio di due Ministeri (Esteri e Beni Culturali), della Regione Piemonte e della Citte di Torino. Laura Pariani, nata a Busto Arsizio nel 1951, ha sin qui pubblicato cinque libri, da «Di corno o d'oro» (Sellarlo). le storie che l'hanno rivelata, al romanzo «La Signora dei porci», uscito negli scorsi mesi peri tipi di , Rizzoli.