Ma il Duce non riuscì mai a conquistare Torino di Alberto Papuzzi

Ma il Duce non riusc�mai a conquistare Torino Castronovo risponde a D'Orsi: rantifascismo della cultura torinese non è un mito Ma il Duce non riusc�mai a conquistare Torino Alberto Papuzzi TORINO CHE cosa è slata la Torino culturale tra le due guer�re? A distanza di oltre settant'anni, questo inIterrogativo è ancora di attualità e ripropone il grande tema della condizione e del ruo�lo degli inlellelluali. Per quanto riguarda la società torinese nel ventennio fascista, da un lato esiste la consolidata immagine basala sulle scelle di indipenden�za di uomini come Piero Gobetti e Leone Ginzburg, Augusto Mon�ti, Vittorio Foa, Mila, Giua e gli altri antifascisti dazeglini e einaudiani. Dall'altro aumentano le ricerche storiche che scelgono come orizzonte l'intero ceto in�tellettuale, ne mettono a fuoco comportamenti contraddittori, seguono le fila di personaggi minori, indagano la zona grigia di chi cercò rifugio nelle nicchie dell'opportunismo. A questo filone appartiene il saggio La cultura a Torino tra le due guerre di Angelo D'Orsi, edito da Einaudi, presentalo ieri su queste pagine. Un libro impor�tante, ricco di documenti, con�clusione di una lunga ricerca storiografica, cominciata dal�l'autore vent'anni fa, che in quasi quattrocento pagine rimet�te in discussione l'idea che l'anti�fascismo fosse di casa nelle stan�ze della cultura torinese, pur riconoscendo il valore e la coe�renza di una élite di inlellellua�li. Per cui ci si torna a chiedere quanto la Torino degli inlellel�luali sia stala una città antifasci�sta. Lo abbiamo chiesto a Vale�rio Castronovo, storico di Tori�no e della Fiat, biografo di Gio�vanni Agnelli, autore di diversi noli studi, a partire dal volume Piemonte della Storia d'Italia Einaudi. «Sulla base della documentazione di parte fascista che ho avuto modo di consultare per anni, in particolare i rapporti dei federali torinesi, posso dire che anche nella seconda metà di quegli Anni Trenta, che secondo Renzo De Felice segnano il mas�simo consenso degli italiani al regime, si parla di Torino come di una città da conquistare al fascismo. Questo non toglie che potessero esserci atteggiamenti nicodemici, per usare un termi�ne adottato da Bobbio: per esem�pio tanti intellettuali lavorava�no per l'Enridopedia Italiana, che era diretta da Giovanni Gen�tile. Ma il dato storico che viene fuori dai rapporti dei federali è che il fascismo non aveva messo radici in questa città». Ci sono quattro ragioni che spiegano l'anomalia torinese, se�condo Castronovo. Innanzi tut�to un potere industriale che tutto sommato non si lascia occupare: la Fiat obbedisce alle sue logiche e Mussolini sa di dover fare i conti con questo potere. In secondo luogo, una classe operaia che almeno nelle sue fasce generazionali più an�ziane restava sentimenlalmentc legata alla tradizione socialista e comunista. Quindi una tradi�zione monarchica profondamen�te radicala, che il regime tollera sempre meno man mano che si cerca di creare lo Slato totalita�rio. Infine la presenza di gruppi intellettuali sempre sospetiali di non essere allineati all'ideolo�gia del regime, sempre accusali di fare la fronda. «Negli slessi anni Milano è la città cara al Duce», osserva Ca�stronovo. Mentre Torino è una città ostile: «I federali avrebbe�ro avuto lutto l'interesse a pre�sentare una situazione edulcora�la. Invece si lamentano che gli inlellelluali non offrano all'ideo�logia del regime un contributo fallivo. So per il regime costitui�va un conlinuo problema, signi�fica che l'antifascismo degli in�lellelluali esisteva, senza con ciò nulla togliere all'importanza del lavoro di Angelo D'Orsi. Te�niamo conio che nella seconda metà degli Anni Trenta c'è la cosiddetta seconda ondala della sinistra fascista, che si mostra intenzionata a fare pulizia sia dei dissenzienti sia dei morbi�di». Ciò non significa che l'ideolo�gia fascista non faccia presa. A Torino De Vecchi conduce l'ope�razione di convertire il fascismo in un coronamento del Risorgi�mento, trovando ascolto in parti�colare tra accademici e professo�ri sensibili al culto della nazione e al fascino della romanità, co�me dimostrano diversi studi e lo stesso D'Orsi, «Ma in nessun'altra città ilaliana il regime va giù cosi pesante dice Castronovo -. Con la chiusura della rivista La Cultura, con le censure contro Einaudi, con la retala del '35 contro Giustizia e Libertà: il regimo vuole dare una lezione. Perché avrebbe dovuto usare il pugno di ferro se fosse stato soltanto un antifascismo all'ac�qua di rose?». E' una questione, per Castronovo, di interpretazione storiografica: «Non è pensabile che nella società intellettuale non pesasse la tradizione antifasci�sta o anche a-fascista. Al mo�mento della Resistenza poi ti ritrovi i badogliani, i comunisti, i socialisti, gli azionisti, anche i cattolici. Santo Iddio, non pos�siamo immaginare che spuntino dal nulla». «In nessun 'altra città italiana il regime andò giù cos�pesante contro gli intellettuali: perché avrebbe dovuto usare il pugno di ferro se la loro opposizione fosse stata blanda?» «Negli stessi anni, invece, Milano era cara a Mussolini» Una sfilata di partigiani a Torino dopo la liberazione. In basso lo storico Valerio Castronovo

Luoghi citati: Milano, Piemonte, Torino