Le nostre prigioni, da Pellico a Sofri

Le nostre prigioni, da Pellico a Sofri Le nostre prigioni, da Pellico a Sofri Al di là deiremergenza, il carcere diventa questione nazionale solo quando riguarda personaggi noti e incrocia i movimenti politici CHE la prigione in tutte le sue possibili e tristi variabili camere di sicurezza delle questure e istituti di pena di massima sicurezza, campi di deten�zione per prigionieri di guerra e celle di rigore per militari insubor�dinali sia esperienza condivisa, nel corso della nostra storia nazio�nale, da moltitudini di italiani noti e meno noli ò cosa troppo scontata perché ci si debba soifermare. E tuttavia la condizione carceraria nel nostro Paese al pari di altri aspetti duri e drammatici del desti�no umano viene rammentata solo davanti all'insorgere di improvvi�se emergenze. Allora tutto finisce, per qualche giorno, nella cronaca nera o nella polemica politica: bru�tali repressioni che calpestano ogni dirilto di civiltà e rivolte collettive in istituti sovraffollati e fatiscenti, efferati regolamenti di conti tra bande contrapposte e gesti di disperazione di detenuti che davanti alla disumana inso�stenibilità di una pena che sottrae ogni speranza levano la mano su di sé. Per una manciata di giorni s'illu�mina, attraverso l'interesse dei me�dia, il lato oscuro e minaccioso di una realtà quella carceraria che pure fa parte permanente del no�stro vivere collettivo e rappresenta una delle più sensibili cartine al tornasole per valutare il grado di civiltà di una comunità. Poi l'inte�resse si spegne e ritoma nella penombra la disumana quotidiani�tà della vita carceraria, i suoi riti ossessivi, i suoi insostenibili para�dossi. Ad esempio quello che fa si che guardie e carcerati, nella forza�ta seppur diversa e contrapposta c;ondivisione della realtà carcera�ria, finiscano progressivamente con lassumere modalità di linguag�gio e di pensieri, di gesti e di esclusione dalla vita reale e comu�ne che li rende, per molti versi, simili. Alla stregua di schieramenti contrapposti in una guerra che, via via che procede nella brutalità e nell'insensatezza dello ostilità, omologa i nemici, al di là dell'uniforme che indossano. Spenta l'emergenza si spegne anche l'attenzione per quanto acca�de e per come si vive oltre le mura e le porte delle carceri. E le nostre prigioni tornano ad essere, come sono sempre state nella nostra storia nazionale, «le mie prigioni»: esperienza dolorosa e personale, estraniata e scagliala lontano dal vivere collettivo del Paese. Solo (piando questa esperienza indivi�duale concerne qualche personag�gio assurto a vasta notorietà o s'incontra con vasti movimenti po�litici s'accende l'inleressc dell'opi�nione pubblica. Non è forse un caso che uno dei libelli che preparano la nostra uni�ficazione nazionale sia lo scritto con cui il povero Silvio Pellico redattore capo del Conciliatore, arrestalo trentunenne a Milano per la timida attività carbonara che lo ha coinvolto in un gioco forse più grande di quanto pensas�se racconta la propria detenzione noll'imperialregio carcere dello Spielberg dove trascorre il decen�nio tra il 1820 e il 1830 (la pena di vent'anni gli viene dimezzata dalla grazia che lo rimette in liberta). La vera motivazione dell'attenzione destata da Le mie prigioni, un vero long-seller editoriale della metà delVOttocento, non è la descrizio�ne della dura realtà di quel carcere quanto le motivazioni alte di quel martirio affrontato da Pellico insie�me a Federico Gonfalonieri (libera�to nel 1835) e al forlivese Piero Maroncelli. E la descrizione del�l'amputazione della gamba subita da quest'ultimo, operazione senza anestesia ovviamente come s'usa�va a quei tempi, diventa uno dei pezzi forti capaci di commuovere generazioni di italiani rafforzando�li nelle aspirazioni all'unificazione nazionale. D'altra parte per quella genera�zione ma soprattutto per quella successiva che vede il coronamen�to dell'Unità d'Italia la leadership politica raramente è disgiunta si vedano le esperienze di Garibaldi e Mazzini da qualche esperienza di soggiorno nelle carceri, fossero quelle dell'imperatore di Vienna, del re di Torino, di Napoli o del sovrano del neonato regno d'Italia. Anche la generazione successi�va, quella dei padri fondatori del socialismo, ha una stretta frequen�tazione con le patrie galere: l'elen�co degli ospiti potrebbe cominciare da Andrea Costa e Anna Kuliscioff. Il loro carteggio e le lettere d'amo�re che si scambiano sono una testimonianza d'altissima emozio�ne ma, anche qui, il carcere che pure stanno sperimentando, rima�ne sullo sfondo. Quasi che almeno attraverso la scrittura potessero fuggire oltre le sbarre e le porte chiuse. La staffetta continua con altri nomi illustri: da Turati a papà Mussolini che viene arrestato nel 1902 per avere fracassato ume elettorali (buon sangue non men�te!) a Benito Mussolini e Pietro Nenni, carcerati assieme in quel di Bologna per le proteste contro la guerra di Libia. Si parla poco inve�ce, in quell'inizio del secolo, della breve carcerazione di Gaetano Bresci, l'anarchico che il 29 luglio del 1900 ha ucciso a Monza il re Umberto I e che viene condannato all'ergastolo il 30 agosto dello stes�so anno. Nel maggio dell'anno do�po Bresci viene trovato impiccato airinferriata della sua cella: Cicinelli, direttore del penitenziario di Santo Stefano, telegrafa alle autori�tà di Roma fornendo la ricostruzio�ne del suicidio. Successivamente emergerà come alcune guardie non siano state estranee al repentino passaggio a miglior vita de regici�da. Sulle prigioni durante il venten�nio mussohniano si parla ovvia�mente molto nella vasta memoriali�stica dei carcerati antifascisti: an�che, se lo sguardo dei detenuti poi itici è quasi sempre assai distac�cato dalle esperienze di vita quoti�diana dei «comuni». Nella tesa atmosfera delle gale�re dei nostri Anni Settanta e Ottan�ta si è portati, invece, attraverso le pagine dense di umanità, di rabbia e di humour de I duri un libro scritto da Giuliano Naria, protago�nista di un clamoroso caso politico e giudiziario. Di uno dei suoi com�pagni di reclusione Naria raccon�ta: «Era uno di quelli che entrano in cella, guardano le sbarre e dico�no: "Quattro tagli, mezz'ora per taglio". E subito montava l'archet�to della lima e senza neppure guardarsi attorno per vedere se i nuovi compagni fossero uomini, mezzi uomini, ominicchi o quaquaraquà cominciava a segare: 'Scusa�te, ho quarant'anni da fare!"». Del carcere d'oggi fa da spec�chio la scrittura da galera («va avanti e indietro per niente, come le camminate all'ora d'aria. Rim�balza da un muro all'altro, da un giorno all'altro. Si disfa») affidata da Adriano Sofri a Piccola posta, un libro che sarebbe bello non fosse stato necessario scrivere ma che tutti dovrebbero leggere. Ogni riga è un lampo. Un esempio? «E' domenica. La domenica, dicono i detenuti, è il giorno più vuoto, "Non c'è neanche la posta": lo dicono anche quelli ai quali non è mai arrivata neanche una cartoUnav. Domani è domenica: dentro le jalerc e fuori. Forse per tutti non è o stesso giorno. DA LEGGERE Silvio Pellico Le mie prigioni Utet. Torino 7954. Anna KuliscioK Lettere d'amore a Andrea Costa Feltrinelli. Milano 1976. Giuliano Naria Iduri Baldini S Castoldi, Milano 1997 Adriano Sofri Piccola posta Se/Zeno, Palermo 1999 Del carcere nel nostro Paese si discute solo quando diventa cronaca nera o polemica politica. Poi ritorna nell'ombra la difficile, a volte disumana, condizione dei detenuti diWimWenders