IL PANE è di destra o di sinistra?

IL PANE è di destra o di sinistra? Negli Anni 30 il fascismo insegu�un'ideologia del lavoro, ma l'utopia portò soltanto all'antifascismo IL PANE è di destra o di sinistra? Sulla spinta dei mutamenti sociali, il regime cercava un progresso politico capace di attrarre le energie riformatrici d'Europa Paolo Mieli ELLA seconda me�tà degh Anni Tren�ti, dopo una lunga stagione di vita quasi alla giorna�ta, il fascismo ita�liano provò a darsi un'ideologia im�perniata sul lavo�ro. Secondo Giu�seppe Landi. im�portante figura di sindacalista mussolinian-mazziniano che a questa duplice ispirazione dedicò nel 1932 il libro «Dall'associazio�ne mazziniana alla corporazione fascista», il lavoro era stato al�l'orizzonte del movimento fin dal�l'inizio tant'è che, a suo avviso, come vero, autentico atto di nasci�ta del fascismo andava considera�to il discorso di Mussolini agli operai di Dalmine del 20 marzo 1919. Altri sostennero che il nuo�vo corso «di sinistra» era iniziato più in là, nel '27 con la Carta del lavoro. Altri ancora pensavano agli inizi degli Anni Trenta quan�do si ebbe un acceso dibattito sul corporativismo. In realtà è con la conclusione della guerra d'Etiopia che il tema del lavoro fece davvero irruzione nella fantasia dei fasci�sti. Giuseppe Parlato che a questi problemi ha dedicato un interes�santissimo libro di imminente uscita per i tipi del Mulino («La sinistra fascista Storia di un progetto mancato») scrive che è con la fine della guerra d'Etiopia che il lavoro divenne il «nuovo mito» attraverso il quale si selezio�nava la classe di riferimento: «Dal�l'ex combattente della prima guer�ra mondiale f' gassava al lavorato�re nelle sue varie sfumature (il colonizzatore, il soldato che toma al lavoro, l'operaio, il rurale, l'ex bracciante)». Siamo nell'estate del 1936. Va�sco Pratolini scrive su «11 Barel�lo»: «Tornato bracciante, dopo avervi vissuto la vigilia di prepara�zione e la guerra, il popò ano che resta sulla terra conquistata ha solo un diritto assoluto: quello di non vedersi, ora che l'ansito della guerra è passato, ripiombare sotto l'assillo di certe ne�cessità o, peggio, d'indigenza e cre�dere di lavorare ancora per un "padrone': questo glielo garantisce lo Stato, il solo pa�drone che ha ragio�ne d'essere... Cos�si ottiene l'origina�lità dell'Impero fa�scista nei rispetti del proletariato d'Italia e del proletariato indige�no». Esauritasi con il '25 la spinta all'elaborazione concettuale che aveva contraddistinto i primi anni del fascismo, elaborazione in cui si erano spesi Giovanni Gentile, Alfredo Rocco e Camillo Pellizzi, era poi iniziato il lungo periodo del cosiddetto pragmatismo mussoliniano «che», sostiene Parlato, «gui�dò il fascismo senza preoccuparsi eccessivamente di rielaborare un pensiero che appariva sempre più strumentale alle scelte politiche e internazionali». E' vero che in quell'epoca Mussolini tollerò la più ampia discussione all'interno della crltura fascista ma lo fece solo perciió qruesto dibattito, inca�nalato nell'alveo istituzionale del regime, lo condizionava solo mar�ginalmente. Ma a metà del decennio succes�sivo le cose cambiarono. La sini�stra fascista seppe cogliere l'occa�sione storica dei mutamenti socia�li dell'Italia degli Anni Trenta per imprimere la propria visione di un progresso politico e sociale di cui il fascismo avrebbe dovuto essere il portatore, di una «utopia rivoluzio�naria che», sostiene Parlato, «di�ventava il vero quid novi del fascismo rispetto a liberalismo e al socialismo riformista, rispetto alla stessa impostazione del fasci�smo come momento di ricostruzio�ne autoritaria dello Stato libera�le». Un progetto che, a differenza della tradizionale visione mussoliniana, si presentava con due ele�menti di assoluta novità: «In pri�mo luogo la volontà di creare un'ideologia; in secondo luogo la possibilità che questa ideologia potesse abbandonare la ristretta ottica nazionalistica, diventando un modello in grado di catalizzare le energie della sinistra europea (il Convegno italo-francese del 1935 costitu�in tal senso un eloquente esempio) in nome di un corporati�vismo rivoluzionario di cui u fasci�smo italiano, con i propri valori, si facesse promotore». Tre furono le figure fondamen�tali di questo nuovo corso: il politi�co-intellettuale Giuseppe Bottai, il filosofo Ugo Spirito e il pedagogi�sta Luigi Volpicelli. Questi ultimi due si spinsero sino a lambire i confini con la dottrina comunista. E Spirito influenzò in tal senso lo stesso Giovanni Gentile. Il quale in un discorso di fine giugno del '43, un mese prima della caduta del fascismo, disse: «Chi parla ugg�di comunismo in Italia è un corporativista impaziente delle more necessarie dello sviluppo di un'idea che è la correzione tempe�rata dell'utopia comunista e l'af�fermazione più logica e perciò più vera di quello che si può attendere dal comunismo». Al decennio prag�matista ne segui, dunque, un altro (1935-1945, compreso il biennio della Repubblica sociale) forte�mente influenzato dalla sinistra fascista che se pure non riusc�mai a vincere politicamente la partita, «fece sua» la formazione di quella che destinata ad essere l'intera o quasi classe dirigente del dopo�guerra. Svastica e comunismo E' davvero incredibile notare quanti italiani eminenti dell'Italia postbellica si erano trovati a passa�re dalle parti del fascismo di sinU stra. E, soprattutto, quanti degli stilemi della sinistra che rientrò in Italia dopo il '45 venivano da quella fucina che aveva lavorato a pieno regime nella seconda metà degli Anni Trenta. Anni, ricordia�molo per inciso, tra i più demoniz�zati del ventennio per la saldatura che si produsse proprio in quel momento nei rapporti tra fasci�smo e nazismo, l'introduzione del�le leggi razziali e il corso comples�sivo che si concluse con l'ingresso dell'Italia in guerra. Gii anni in cui l'Italia strinse la propria parentela con Hitler furo�no dunque quelli in cui si formò la futura classe dirigente antifasci�sta. Anche se molti dei protagoni�sti dell'epoca avrebbero potuto vantare in seguito qualche trattenimento circa l'alleanza che si andava rinsaldando con i «fratelli nazisti». E non è solo un fatto anagrafico. Temi analoghi a quelli che seducevano i giovani fascisti di fine Anni Trenta erano abitati anche in Germania sotto le inse�gne della svastica. L'attenzione al lavoro, i interesse per il comuni�smo, la ripresa di tematiche rivolu�zionarie furono in qualche modo comuni ai due Paesi, Italia e Ger�mania. «La Rivoluzione fascista», scriveva Bruno Biagi nel 1939, «è anzitutto una rivoluzione sociale che dalla forza viva e sana del popolo esprime nuovi valori, for�ma nuove gerarchie». L'afferma�zione che il lavoro (cioè la «forza viva e sana del popolo») potesse esprimere nuovi valori e nuove gerarchie ebbe, secondo Parlalo, «un'importanza determinante nel disegnarne il ruolo preciso nella nuova ideologia fascista e, contem�poraneamente, nel qualificarlo co�me centrale rispetto agli altri pro�blemi politici e storici che costitui�vano il riferimento del pensiero fascista». E' in questo contesto che Riccardo Del Giudice ottiene dai vertici del regime luce verde per varare un monumentale pro�getto per una «Storia del lavoro» in più volumi che avrebbe dovuto erìgersi a «momento unificante e interpretativo della storia della società!?. Del Giudice, esponente sindacale di primo piano oltreché docente universitario di diritto corporativo a Roma, è stato presi�dente della Confederazione fasci�sta dei lavoratori del commercio. Stimatissimo da Bottai che dal dicembre del '39 lo volle come suo sottosegretario al ministero del�l'Educazione nazionale. Del Giudi�ce nell'aprile di quello stesso an�no, previa autorizzazione di Mus�solini, convoca un gruppo di stori�ci politici, dell'economia e del diritto per mettere a punto il piano dell'opera. Sono presenti Gino Barbieri, Franco Borlandi. Giuseppe Chiarelli, Francesco De Robortis, il futuro leader democri�stiano Amintore Fanfani, Giusep�pe Maranini, Annando Sapori. Ci sono poi personaggi di frontiera come Luigi Dal Pane ed Ernesto Sestan. E, a sorpresa, uno storico che fino a quel momento (ma anche in seguilo) non si è certo segnalato per una particolare pre�dilezione nei confronti di quelle tematiche: Federico Chabod. All'epoca Federico Chabod ha trentotto anni. Ha debutlato in campo storiografico laureandosi a Torino alla cattedra di Pietro Egidi con una lesi su Niccolò Machiavelli, pensatore al quale avrebbe poi dedicato un trenten�nio di studi e ricerche. In seguito è stato allievo di Gaetano Salve�mini e, a Berlino, d�Friedrich Meinecke. All'inizio degli Anni Trenta ha assunto con Gioacchi�no Volpe la responsabilità della sezione di storia moderna del�l'Enciclopedia italiana. Fino al 1934. In seguito, anche per tener�si lontano dal regime, si è dedica�to esclusivamente all'insegna�mento universitario. E lo ha fatto in stretto rapporto coii Benedetto Croce da cui, nel dopo'uerra, erediterà la guida del' Istituto storico. Autore di libri fondamentali sulla Milano di Car�lo V, l'Europa, la politica estera italiana dal 1861 al 1914, Chabod è ritenuto anche all'estero il più importante storico italiano del Novecento: l'università di Oxford gli confer�il dottorato honoris causa e fu anche nomina�to presidente dell'Istituto inter�nazionale di scienze storiche. E' considerato altres�come il padre della storiografia liberale di que�sto dopoguerra ed ha sempre goduto di unanime stima per essere stato uno dei pochissuni intellettuali di grande prestigio che mai, neanche nella stagiono della Treccani, si lasciò conlami�nare dal fascismo. Parlalo è il primo a riconoscere che il rinve�nimento del suo nome tra i parte�cipanti alle riunioni del comitato (solo quelle iniziali, che dopo aver dato consigli sulla periodizzazione delle monografie e sui confini della ricerca, si tirò in disparte) non costituisce per Cha�bod titolo di compromissione con il regime. Anche se va precisato che lo storico accettò di far parte del ristretto ufficio di segreteria talché Del Giudice propose addi�rittura di nominarlo coordinato�re ufficiale doll'inlera opera. La questione non è dunque quella di una macchia che non ci fu nella biografia di Chabod. Bens�di quanto potesse essere attraen�te per gli intellettuali dell'epoca, anche quelli di scuola liberale, persino per una figura come quella di Chabod poco sensibile a quel genere di tematiche, la piospettiva di collaborare ad una monumentale «Storia del lavoio» che nasceva con l'intento dichia�ralo di dare nuova identità al fascismo. Fanfani storico per il regime Siamo alla vigìlia della seconda guerra mondiale, in età, come s'è detto, di più che saldi rapporti tra Mussolini e Hitler, eppure allorché una frangia non irrilevante del regime progetta una sorta di rifon�dazione fascista, riesce a coinvolge�re nell'improsa figure di confine e oltre. Ci pensò poi la guerra ad interrompere quei progetti. Cha�bod e Sestan si defilarono. Dell'ope�ra uicirono soltanto due volumi, quelli di Amintore Fanfani e Luigi Dal Pane, e per un lunjjo periodo non se ne parlò più. Curiosamente nel dopoguerra su iniziativa di Gino Barbieri e sotto la protezione di Fanfani nonché dell'Università milanese del Sacro Cuore. Del Giu�dice potè riprendere il suo lavoro e mandare avanti il progetto della «Storia del lavoro». Stavolta però ispirala al filone sociale cattolico. Questa, però, è un'altra storia. In ogni caso l'ala rivoluziona�ria del mussolinismo non si diede per vinta. Naufragale nel '43 le iniziative che si erano messe in movimento nella seconda metà degli Anni Trenta, all'epoca della Rsi la sinistra fascista fu di nuovo all'atlacco. Non che sia riuscita a catturare l'anima della repubbli�ca di Salò come vorrebbe la storio�grafia repubblichina. Renzo De Felice ha scritto pagine molto acute contro quel «gran parlare che nel dopoguerra è stato fallo da parte fascista a proposilo dclT'anima sociale" della Rsi». «Un gran parlare», sosteneva De Feli�ce, «che ha finito per dare alla motivazione sociale... un'impor�tanza maggiore di quella che in realtà essa ebbe-». Parlato concor�da. La verità è che, a dis ietto di queste ricostruzioni postbelliche dell'estrema destra, la sinistra fascista vera e propria fu mino�ranza anche ai tempi della Rsi. Questa sinistra fedele a Mussolini nel periodo che va dall'autunno del '43 all'aprile dol '45 non coltivò mai l'illusione che la guer�ra potesse esser vinta e svolse il i suo ruolo operando esclusivamen�te per garantire, dopo la fine del conflitto, il passaggio dei potori ai �parlili di ispirazione marxista. Come scriveva Ugo Manunta, un altro celeberrimo sindacalista del�la sinistra mussoliniana, queste forze «miravano a creare una base di provvedimenti sociali nei quali la sinistra socialista e cnmu nista si potesse in qualche modo riconoscere, allo scopo di creare una piattaforma collaborativa per il dopoguerra». A qualcosa di simile almeno in senso lato (senza cioè i riferimenti ai partiti marxi�sti) «è riconducibile», secondo Par�lato, «la direzione de 'La Stampa' di Concetto Pettinalo, un ex av�versario del mussolinismo, vicino alla concentrazione antifascista di Parigi nel 1924-25, iscrittosi al Pnf nel 1933 e successivamente convinto assertore di una repub�blica sociale e giacobina, di un avvicinamento fra italiani "al di sopra delle baionette straniere', di un superamento della pregiudi�ziale fascista in nome di un'istan�za sociale che potesse radunare gli italiani oltre le ideologie». Progetti che si accavallavano a progetti. Tanti semi gettati «a sinistra». Ma era tardi. Troppo tardi per vincere una partita al�l'interno del fascismo. Anche da quelle esperienze lardorepubblichine, comunque, uscirono giova�ni che nel clima determinato da quei dibattiti avevano maturalo convinzioni dalle quali, finita la guerra, si sentivano sospinti ver�so nuove strade. Strade che non portavano a destra. 1 " l " ' li Mi B « Il " — ii i .n .i i , i. 1 "