GOMMA da camminare

GOMMA da camminare GOMMA da camminare ANTEPRIMA Maria Laura Rodotà E' sabato, giornata da star comodi. Da infilarsi un paio di sneakers, di scarpe da ginna�stica di modello morbido o scattante a seconda dei gusti, e sentirsi belli sciolti. Più sciolti, certo, delle operaie indonesiane che le cuciono a un dollaro e qualcosa di paga al giorno; qualche anno fa si scopr�che «nessuno impediva ai dirigenti di mettere nastro adesivo sulla bocca delle don�ne perché non parlassero tra loro». I due estremi della fenome�nologia dello sneaker, calzatu�ra chiave di fine e giro di millennio, sono tutti qua. Rac�contati in ogni aspetto, dalla storia alle marche, dalle strate�gie pubblicitarie agli orrori della produzione in subappal�to nei Paesi poveri, dal valore simbolico per ragazzini e qua�rantenni alle evoluzioni econo�miche e progettuali, ne L'ani�ma di gomma di Tom Vanderbilt. Appena tradotto da Feltri�nelli (pp.176, L. 30.000), scrit�to da un giornalista americano che da giornalista americano bravo ha la rognosa tendenza a esaminare tutto, raccontare tutto, fornire tutti i dati senza troppi svolazzi teorici. Anzi, di svolazzo nel libro ce n'è uno solo, lo «swoosh», la virgolonalogo della Nike che è la più grande industria di sneakers del mondo, ormai simbolo glo�bale, anche di un modello economico-produttivo-consumistico. Creata per caso da una studentessa di belle arti di Portland, Oregon, patria della Nike e non a caso città del Nordovest americano, ap�pena sotto la Seattle della Microsoft di Bill Gates. Quello invece non è un caso, dice Vanderbilt: che parte dal suo primo acquisto, da ragazzino, di un Commodore 64 e di un paio di Nike Cortez azzurre, per definire i due «pionieristi�ci movimenti di consumo contemporaneo». Più modaiolo l'uno, più importante l'altro, ma ambedue espressioni cru�ciali dei tempi e dei modelli di produzione, flessibili, creati�vi, feroci, pronti a proporre cose sempre nuove non solo per conquistare il mercato, per farlo identificare con mar�che, loghi, stili. E insomma, spiega Vander�bilt, «gli sneakers sono il pro�dotto emblematico del tardo Ventesimo secolo..coniugano moda e funzionalità, atletica e spettacolo, tecnologia in conti�nua evoluzione e obsolescen�za pianificata». Tanto che se�condo alcuni economisti «illu�strano la realtà del commercio e della globalizzazione più chiaramente di qualunque al�tro oggetto». Perché «sono il prodotto finale di un processo sempre più complesso di desi�gn, produzione e consegna che coordina dozzine di aziende multinazionali con scadenze sempre più pressanti». E qui comincia l'avventura. Iniziata nel 1836, quando Charles Goodyear brevettò la gomma vulcanizzata, prose�guita nel 1870, quando la jarola «sneak» entra nei vocajolari americani come «scarpa di tela con suola di gomma indiana», tuttora in corso col cruciale contributo di «cool hunters», i giovani cacciatori di tendenze e oggetti ganzi, quelli che girano per le grandi città facendo sperimentare nuovi modelli agli adolescen�ti, nei negozi nelle palestre sui campi di basket, discutono con loro, bocciano e promuovo�no sneakers. Perché nessun altro prodotto è tanto influen�zato dallo stile della strada, e, ovviamente, dello sport. Con i suoi testimonial di appeal glo�bale e/o mirato: il cestista Michael Jordan, prima del suo ritiro il più pagato e amato, il golfista Tiger Woods, pelle colorata e campione di uno sport d'elite, la tennista Venus Williams, donna, strasexy che piace agli uomini, fortissima che galvanizza le donne, nera che richiama i neri. Anche la storia delle sponso�rizzazioni è una favola evoca�ta da Vanderbilt con tante cifre e risultati di mercato. Dai primi Anni Ottanta, quan�do i campioni prendevano cen�tomila dollari ed erano conten�ti, a pochi anni dopo, quando i milioni di dollari volavano tra aziende, procuratori, pubblici�tari e atleti. E rapper, dei ghetti neri, figli di quella cul�tura della scarpa ossessiva, adolescenziale e anche sangui�nolenta (sono ancora nella me�moria, tra effettiva cronaca e leggenda metropolitana, gli ammazzamenti nei quartieri poveri americani per un paio di Nike o di Reebok, o da noi i più caserecci scippi ai piedi dei più fortunati nel centro di Milano). Perché negli ultimi quindici anni in certi gruppi c'era la «follia degli sneaker». Narrata da Tom Wolfe nel Falò delle vanità, dove ci sono le Reebok nuove che il giovane pusher si fa recapitare ogni giorno in galera e gli sneaker a poco prezzo dell'assistente procuratore Kramer e dei suoi sfigati compagni di metropoli�tana. Documentata dalle cro�nache economico-finanziarie: il colpaccio della Reebok eh" lancia «le» scarpe da aerobic , leggere e morbide come panto�fole, che le donne usano in palestra e, negli Usa, per cam�minare verso l'ufficio con le scarpe serie in un sacchetto; la riscossa della Nike, tuttora al 42 per cento del mercato americano e fortissima in tut�to il mondo, grazie a Michael Jordan, al velocista Michael Johnson, alle campagne ag�gressive con lo slogan «Just Do It», fallo e basta; la ripresa della converse, le manovre prò resurrezione della Adidas. Resa nera dalla cronaca nera: gli sneaker modello Chuck Taylor della Converse trovate ai piedi del leader grungo dei Nirvana Kurt Cobain quando fu scoperto il suo suicidio; le Nike nere ai piedi di altri suicidi, in massa, della setta californiana Hcaven's Gate nel '97. Poi, certo, ci sono i «trecen�to progettisti della Nike, i sessanta della Reebok, i qua�ranta della Fila». Ma ci sono anche le migliaia di operai dei Paesi «in via di sviluppo» che le scarpe le fanno sul serio. Quelli le cui condizioni di lavoro sono denunciate da an�ni. Prima in Corea del Sud: sindacati a bada, lavoratori accurati, il letale benzene non vietato noi processi di vulca�nizzazione come in Occidente. Poi a Taiwan, in Vietnam, in Cina, in Indonesia. Salari non oltre il dollaro e mezzo al giorno, quasi tutte donne a lavorare, sorveglianti spesso autorizzati a schiaffeggiare («i coreani hanno un tempera�mento focoso») lavative e orga�nizzatrici sindacali. La Nike si e sempre difesa spiegando che non erano fabbriche sue, ma «subappalti»; la Reebok dà premi per attività umanitarie a dissidenti cinesi. Intanto in Cina, nelle fabbriche, i sinda�cati sono proibiti. Negli anni, le condizioni di lavoro inferna�li e i salari sono un po' miglio�rati. I funzionari occidentali rivendicano che, se non altro, lavorando per loro, «i dipen�denti sono esposti agli usi occidentali». Intanto, sugli usi occidenta�li, si polemizza in Occidente Vanderbilt racconta di edito�rialisti americani che attacca�no le case produttrici perché persuadono i ragazzini dei ghetti a comprare scarpe da cento dollari e più. Le case si fanno pubblicità aggressiva le une contro le altre. E intanto, conclude Vanderbilt, gli sne�akers «calzano i piedi della maggioranza degli americani» e di molti altri nel mondo appena possono. E «mantengo�no il primato tra le calzature di fine secolo», e sono in continua evoluzione. Per cui il suo libro finisce e non finisce. Forse è una lettura meno di�vertente di quel che ci si aspetta, ma più utile. Magari da proporre nelle scuole supe�riori. Perché molte cose sul�l'economia di oggi, sui compor�tamenti sociali, sul nostro cul�to della celebrità e della forma fisica, su come si orientano i nostri consumi, si vengono a conoscere quasi senza accor�gersene in queste 176 pagine apparentemente dedicate alle scarpe. LO SNEAKER, CALZATURA CHIAVE DI FINE MILLENNIO: UNO STILE DI VITA PER CAMPIONI, RAGAZZI E QUARANTENNI NEL SAGGIO DEL GIORNALISTA AMERICANO VANDERBILT G Dall'alto: il cestista Michael Jordan, il golfista Tiger Woods, la tennista Venus Williams, il cantante Kurt Cobain