Per De Lillo, l'America Anni Sessanta è stato il film più pazzo del mondo di Claudio Gorlier

Per De Lillo, l'America Anni Sessanta è stato il film più pazzo del mondo Per De Lillo, l'America Anni Sessanta è stato il film più pazzo del mondo RECENSIONE Claudio Gorlier CHE irresistibile gioco di specchi, questo America�na, romanzo di esordio di Don DeLillo. Pensate: esce nel '71, la vicenda si svolge poco prima, ma il nar�ratore protagonista, David Bell, racconta l'intera storia alla vigilia del Duemila, tranquilla�mente installato in un'isola al largo delle coste africane, rilassato e solo con se stesso. «Allo scadere del secolo non ci saranno fuochi d'arti�ficio». Alla fine degli Anni Sessanta, David ha ventotto anni ma già si trova al culmine della carriera in una grande catena televisiva a New York. Gli va tutto bene, fre�quenta ambienti «in», è bello e piace. Già dalle prime pagine si istituisce un rapporto diretto, un preciso interscambio, tra ciò che David è e quello che fa; in altre parole, la sua esistenza coincide con il prodotto, è di volta in volta una «sit com», una «soap opera», o più generalmente un film tanto che nel descriversi fisicamente egli si sente attratto, ai limiti dell'identifi�cazione, con Kirk Douglas e Burt Lancaster, «le Grandi Piramidi ame�ricane», «s irrisi cromati, privi di qualsiasi ambiguità». RECENClaGo IONE dio er Ma il successo an�noia, non meno del�l'ambiente nel quale egli vive. Sopravviene cosi la decisione di la�sciare la metropoU e di gettarsi alla scoperta dei grandi spazi ameri�cani; di dimenticare i «lofi», gli appartamenti alla moda, jer avventurarsi, con tre compagni aizzarramente assortiti, tra i quali spicca uno scrittore sostanzialmen�te di pagine bianche, su un «cam�per» che sembra reggersi con un nastro adesivo, verso Ovest. Non si pensi affatto che in que�sto modo DeLillo intenda proporci una sua versione «on the road», alla Kerouac. La truppa di David non possiede nulla di istintuale e neppu�re di candido, e il viaggio ha in effetti lo scopo di girare un film. Sta di fatto che il film, in un altro ingegnoso gioco di specchi, diventa un modo di penetrare nel caos quotidiano che è l'America, nella sua realtà immediata, nelle sue contraddizioni, nella sua follia. Un critico americano, Joseph Tabbi, che parafrasando Lyotard ha conia�to per Mailer, Pynchon e DeLillo la definizione di «sublime post-moder�no», parla non a caso di scrittura paranoica per questa decomposizio�ne del discorso e, naturalmente, della visione che lo sostanzia. La trama viene a trovarsi decom�posta, decostruita, non meno della Storia con l'iniziale maiuscola (ba�sti pensare al successivo Libra, fantastica ricostruzione dell'ucci�sione di John Kennedy incentrala sulla figura dell'assassino Oswald), in una prospettiva continuamente frantumata. Tale è il viaggio di David e dei suoi compagni attraver�so un'America insieme concreta e posticcia, dove gli incontri occasio�nali, i luoghi, se portano in scena contraddizioni sociali o razziali, echi drammatici come la guerra del Vietnam, si traducono costante�mente in montaggio filmico o televi�sivo, e nella loro molteplicità cattu�rano la fase critica di una cultura. Ne scaturisce un linguaggio che gareggia cun quello tecnologico e al tempo slesso lo rovescia, lo irride. David si serve degli stessi stru�menti che quella cultura esprimo�no e li manipola; d'altronde, non nutre alcuna simpatia per le civette�rie intellettuali alla moda. «Bergman è la quintessenza del regista beccamorto», «erano figli di Godard e della Coca-Cola». L'America è «il Paese più strano, favoloso e pazze�sco della storia», e anche «l'unico Paese al mondo in cui la violenza fa ridere». Bravo il traduttore. Marco Pensante, a stargli dietro. Come si vede, il tessuto di Ameri�cana si regge, più e oltre le impres�sioni e le notazioni di viaggio, sugli aforismi, i giochi di parole, quasi proverbiali. Se l'«America è il sana�torio di ogni possibile statistica», «chiunque cerchi di prevedere che tempo farà in Texas è o forestiero o deficiente». L'autore sembra dele�gare il personaggio a parlare per lui, ma in realtà lo manovra precisa�mente allo scopo di far sentire la propria voce. D'altro canto, egli sa benissimo che non v-nle in alcun modo, a differenza dell'autore tradi�zionale, né sa padroneggiare in modo organico il suo materiale. Il romanzo può soltanto srotolarsi in questa serie di successioni fattuali e verbali, di cui Underworld, l'ulti�ma opera di DeLillo, costituisce il più complesso traguardo. Come ap�pare già chiaramente in un altro libro chiave di DeLillo, Mao II, lo scrittore confessa la sua impotenza a raccontare nel senso stretto della parola, e quindi deve acceture una sfida che consiste proprio nel rap�presentare le contraddizioni, la con�fusione, il posticcio. Qui in Americana, terminato il viaggio per cosi dire filmato, appro�priatamente in un luogo delegato dell'immaginario televisivo, a Dal�las, il protagonista chiude il suo obiettivo, abbandona il camper, compra un biglietto aereo e ritoma a New York, per ricominciare, fino a quando, ben più tardi, andrà a rilassarsi sull'isola e a rivedersi il suo film. In un passo cruciale del libro, David chiede di essere chia�mato Kinch, il nomignolo di Steven Dedalus nell'Ulisse di Joyce. De Lil�lo fornisce, per chi voglia intende�re, la chiave di volta fondamentale a indicare dove tutto il gioco è davvero cominciato. Il suo primo romanzo, scritto nel 71, già indicava il traguardo di «Underworld»: un montaggio di voci e visioni, un fantastico gioco di specchi Don DeLillo Americana traduzione di Marco Pensante, il Saggiatore, pp. 379. L 32.000 ROMANZO

Luoghi citati: America, New York, Texas, Vietnam