«Diciamo sì all'itangliano dei tecnici» di Piero Bianucci

«Diciamo s�all'itangliano dei tecnici» INTERVIENE IL LINGUISTA «Diciamo s�all'itangliano dei tecnici» e a i �e T Gian Luigi Beccaria SULL'invadenza dei linguaggi tecnico-scienti�fici e delle parole inglesi, oggi si parla molto. Ne hanno parlalo nell'ultimo numero di «Tuttoscienze» Piero Bianucci e Gino Papuli. Io credo che in proposilo non vada diffuso un eccesso di allarmismo. L'Italia non è nuova all'inflirazione di forestierismi. Ha assorbito nei secoli parole gennaniche, francesi, arabe, spagno�le. L'influsso forestiero non ha snaturato la nostra lingua. Anzi, l'ha arricchita. Basterebbe tracciare dal Settecento ad oggi la storia degli europeismi «necessari», dai francesismi settecen�teschi della filosofia o dell'economia agli angli�smi ottocenteschi di ambito tecnico, dovuti al fallo che l'Inghilterra aveva compiuto per prima in Europa la rivoluzione industriale; e ancora, basterebbe pensare al lessico politico-parlamen�tare di importazione francese e inglese. Ci arrivano i fondamenti lessicali della procedura parlamentare come aggiornare, coalizione, comi�tato, costituzionale, potere esecutivo e legislati�vo, legislatura, maggioranza, minoranza, mozio�ne, opposizione, ordine del giorno, sciogliere la camera... parole non da poco. Certo, quanto all'anglismo, oggi ci sono molle novità rispello a ieri. La principale è che, rispetto a fine Ottocento o primo Novecento, adesso gli anglismi non sono più prerogativa di aristocrati�ci e intellettuali, ma hanno diffusione nel regi�stro orale e sono accessibili agli strati medi e medio-bassi dei parlanti: da una parte, abbiamo gli anglismi colti, indispensabili, che investono i linguaggi settoriali, specialistici (dalla genetica alla fisica, all'informatica), dall'altra gli anglismi popolari, alcuni adattati (non c'è problema, esalto, assolutamente), altri no (boss, look, week end, okay). Siamo arrivati al punto che, in certi casi, è più nota al comune parlante la voce inglese della corrispondente italiana; è più diffu�so handicappato di "minorato", se dicoquotafìssa o contribuzione sanitaria e non ticket, chi capisce ormai? Indicativo di questo «itangliano» è l'episo�dio raccontato in una intervista di molti anni fa da Paolo Monelli (il raffinato purista auto�re di «Barbaro domi�nio)., libro uscito nel 1933), il quale una vol�ta mandò un telegram�ma di protesta al suo giornale, il «Corriere della Sera», perché ave�va usalo la parola kil-, lerLARicordo umilman. le che chi uccide su commissione in lingua italiana si chiama sicario». Il giorno dopo il giornale mise sicario nel titolo, ma tra virgolette, quasi fosse questa ormai la parola meno nota ai lettori. Oggi sicario è indubbiamente meno popolare di killer, parola che adottammo negli Anni Trenta e elio ora è comunissima e trova persino adattamenti metaforici in settori particoari, por esempio nel linguaggio sportivo, dove ogni difensore troppo duro e scorretto diventa un killer: e capita di sentir talvolta parlare anche di killeraggio politico... Comunque sia, anche se oggi, quanto all'ado�zione di formo inglesi del tutto superflue, noi italiani stiamo esagerando (rispetto ai francesi, agli spagnoli), ritengo che molle delle nostre preoccupazioni siano eccessive. Da un punto di vista generalo occorre ribadire che ogni posizio�ne rigorosamente puristica è linguisticamente e culturalmente improduttiva. La parola stranie�ra, se non è snobismo momentaneo ed inutile, in genero arricchisce, non inquina. Già Leopardi ammoniva che rifiutare parole forestiere, quelle «necessarie» e insostituibili, significa volersi isolare dal mondo: «Rinunziare a una nuova parola, una sua nuova significazione (per forestie�ra o barbara ch'ella sia), quando la nostra lingua non abbia l'equivalente, e non l'abbia cosi precisa, e ricevuta in quel proprio e determinato senso, non è altro, e non può essere meno elio rinunziare o sbandire, e trattar da barbara e illecita una nuova idea e un nuovo concello dello spirito umano». Non si potrebbe dire meglio. E prima di lui Machiavelli, nel Discorso intonici alla nostra lingua: «Non si può trovare una lingua che parli ogni cosa per sé senza aver accattato da altri». La lingua, lo sappiamo, è un bene comune, un bene sociale e culturale, ma non è come l'ambien�te che va protetto perché non vi si scarichino immondezze inquinanti, non è il monumento da tenore sollovolro. come l'Ara Pacis Atlgustae, perché all'aria si deteriora Non vive nel museo. Vive per le strade, nelle accademie e nei porti di mare, nei libri e nelle canzoni, nel mercato rionale e nel congresso scientifico. La sua «babe�le» rispecchia la comunità composita di cui è espressione e l'apporto di varie componenti contribuisce a stabilire l'Uso. Cosa vuol dire «puro»? Non esistono lingue se non miste. Le lingue che hanno un oiu alto [vello civile e culturale sono proprio quelle che possie�dono un vocabolario molto composito, proprio perché esprimono una civiltà che ha raggiunto grande complessità attraverso i contatti più diversi e intensi con altri popoli e altre lingue. La lingua non è un fallo immutabile, una trincea da difendere ad ogni costo. L'inglobare nuove parole è segno di vitalità, non di patologia. A meno che di una lingua non venga intaccata da un'altra la strultura slessa. Questo si, è segno di crisi, di cedimento, annunzio di morte. Per ora, nessuna strultura fondamentale dell'italiano, fonetica, sintattica, morfologica è stata intaccata vistosamente dall'influsso anglico. Neppure il gran numero di parole con termina�zione in consonante, un tipo ai strultura fonetica opposto al tipo italiano (a Firenze alcole, cognac che e simili erano la norma), ha costituito uno choc^nazionale. La lingua «di natura», non «di cultura», degli italiani è slata per secoli il dialetto: la chiusa consonantica in tutti i dialetti del Nord è la norma. Gian Luigi Beccaria Università di Torino Gian Luigi Beccaria

Persone citate: Gian Luigi Beccaria, Gino Papuli, Machiavelli, Paolo Monelli

Luoghi citati: Europa, Firenze, Inghilterra, Italia, Torino