Una carezza all'Universo del Dolore di Igor Man

Una carezza all'Universo del Dolore Una carezza all'Universo del Dolore li Papa accoglie 60 mila malati in Piazza S.Pietro reportage Igor Man GRAZIE al Giubileo, ieri (for�se), siamo usciti dall'equi�voco. «Io sono la Resurre�zione e la Vita», dice Gesù e per chi crede è cosi. Ma il fatto è che noi «sani», se non altro fisicamente, noi che camminiamo coi nostri piedi (non imporla se forti o con�sunti dal tempo), pensiamo che la vita ci soraigh. Non ci accorgiamo, infatti, di chi pur essendo come noi è tuttavia diverso: perché non ci pomiglia fisicamente, insomma. La Malattia lo affligge, la sua carne è martoriata, consuma i suoi giorni su di una sedia a rotelle oppure su di una barella, addirittu�ra. E' un uomo come noi, ima persona: vera ma ostinatamente rimossa «perché non sana» da una società pateticamente vitalistica qtial è la nostra. Ecco, ieri, Giovan�ni Paolo II è come se ci avesse dato un pugno in pieno plesso solare. Quell'adunanza (da lui fermissi�mamente voluta) di persone mala�te non poche anche terribili alla vista, il suo GiubUeo degli Infermi ci ha fatto vedere l'altra faccia del Sole, quella oscura: non la cerchia�mo mai epperò esiste. Ieri in piaz�za San Pietro s'era radunalo l'Uni�verso del Dolore, era convenuto l'Esercito dei Malati, ed è succes�so che naturalmente ci siamo resi conto che si la vita è una, ma esistono diversi, non facili, modi di viverla. L'equivoco è caduto di fronte a quella moltitudine di sof�ferenti venuti da ogni dove per ascoltare la Parola, per ricevere la carezza del Papa. Schiavi compiaciuti, tutto som�mato, del consumismo, affascina�ti un po' tutti dal fitness, corriamo in tanti appresso all'illusione del�l'eterna giovinez�za affidandoci a pozioni truffaldi�ne (son purghe vol�gari) e addirittura al bisturi del chi�rurgo plastico, ne�odemiurgo d'una società competiti�va, senza miseri�cordia, fondala sempre più sull'ap�parenza piuttosto che sulla sostan�za. Certo, non era uno spettacolo gra�devole quello che s'è avuto in piazza San Pietro, illumi�nata dalla volta ce�leste (lo stesso co�lore delle vesti del�la Madonna), rega�lo antico della Cre�azione; riscaldata dalla tecnologia af�finché i sofferenti venuti a Roma non patissero trop�po il freddo. Ma, forse, dicevo, siamo usciti dall'equivoco se non dalla voluta ignoranza: la vka non appartiene esclusivamente ai «sa�ni»^ popolata anche di infermi, di bambini down, di vecchi vecchis�simi aggrappati a una quotidiani�tà pre-vegetativa, di ragazzi belli e fieri costretti in carrozzella dalla paralisi. Qualcuno ha scritto: Ro�ma come Lourdes. Il vecchio croni�sta direbbe Roma come Calcutta. I tanti nostri fratelli disgraziati che ieri han risposto alla chiamata del Papa (un vecchio torturato dal cilicio incessante della pena fisica) non s'aspettavano il miracolo ma speravano nel conforto, volevano (consciamente o non, ha poca im�portanza!, pretendevano la Visibi�lità, un minimo di Visibilità, cosid�detta, e l'hanno avuta grazie alla ostinata pietà di KaroT Wojtyla. Lui che fu atleta e oggi fatica a camminare, sbianco a parlare (a volle), lui che un morbo soltanto controllabile, non vincibUe, scuo�te penosamente, lui che nell'arco relativamente breve di 16 anni ha sopportato sei (complicate) opera�zioni chirurgiche e dall'attentato di Ah Agka, dal 1981 al 1986 è andato su e giù dal «Gemelli», non si sa quante volte, lui, il Papa della Sofferenza, ha voluto che i maiali venissero a Roma per ricever con�forto. Affinché varcassero, ideal�mente con lui, la Porta Santa, uniti nel segno della Speranza. Saliva dalla piazza ordinata�mente gremita di malati e volonta�ri, in una poltiglia di consonanti, in una Babele infine decifrabile la preghiera possente degli storpi, dei ciechi, dei portatori di handi�cap, e dei loro straniti parenti. Citerò, per tutti, la preghiera scan�dita a modo di nenia in swahili, la lingua franca dell'Africa cos�cara a Wojtyla: «A te che conosci i tempi e il momento breve della nostra vita/ a te chiediamo di sperimentare la solidarietà/ il con�forto/ di chi possiede la buona salute/ quando saremo visitati dal�la prova/ e dal dolore». Vigile, attento, il Papa risponde�rà in fatto alle preghiere dei soffe�renti, rifacendosi alla parabola del Buon Samaritano. «Un uomo scen�deva da Gerusalemme verso Geri�co, quando incappò nei briganti. Questi gli portarono via tutto, lo percossero e poi se ne andarono lasciandolo mezzo morto. Per ca�so passò di là un sacerdote, vide l'uomo ferito e prosegu�oltre, dal�l'altra parte della strada. Anche un levita passò per quel luogo, anch'egli lo vide e, scansandolo, proseguì. Invece un Samaritano che era in viaggio gli passò accan�to, lo vide e ne ebbe compassione. Gli si accostò, versò olio sulle sue ferite e gliele fasciò. Poi lo caricò sul suo asino, lo portò in una locanda e fece tutto U possibile per aiutarlo» (Le 10,29). E il Papa: «Non è consentito "passare oltre" chi è provato dalla malattia. Oc�corre fermarsi, chinarsi sulla sua infermità e condividerla», chiose�rà nella sua omelia che vorremmo definire una lettura cristiana del�la malattia. «La chiave di tale lettura ha detto -, è costituita dalla Croce di Cristo. Il Verbo incarnato si è fatto incontro alla nostra debolezza assumendola su di sé nel Mistero della Croce. Da allora ogni sofferenza ha acquista�to una possibilità di senso. Chi sa coglierla nella sua vita sperimen�ta come il dolore, illuminato dalla fede, diventi fonte di speranza e di salvezza». Ecco che una volta an�cora il Papa evoca il mistero impie�toso del dolore. Una esperienza il dolore -, che Wojtyla ha fatto sin da bambino, quando la sua tenera mamma, morta troppo presto, lo chiamava Luìus. Tutta la vita fisica Iquella spirituale non sappia�mo) di Giovanni Paolo II è mar�chiata dal dolore: portato dalla morte, portalo dalla disgrazia, por�talo dalla solitudine dell'orfano. Ma com'egli dice e dimostra, gior�no dopo giorno, il dolore non esclude la speranza, se non altro nella rassegnazione. Poiché rasse�gnarsi alla invalidità, alla morte dei propri cari, alla fino della giovinezza fisica, rassegnarsi a tanta disgrazia è difficile. E costa un'interminabile serie di giorni spenti e di notti brucianti. Kirk Kilgour, campione americano del�la pallavolo nei Settanta, costretto sulla sedia a rotelle oramai da 24 anni perché, proprio a Roma, l'8 di gennaip del 1976 cadde da cavallo rimanendo paralizzato, ie�ri era in San Pietro a ricevere la carezza.del Papa. E a lui, piangen�do come solo i forti san fare: senza vergogna, cioè, ha offerto la poe�sia-verità fattasi col tempo pre�ghiera ch'egli, angolo appiedalo, ha scritto: «Chiesi a Dio di essere forte per eseguire progetti grandio�si ed egli mi rese debole per conser�varmi nell'umiltà. Domandai a Dio che mi desse la salute per realizzare grandi imprese. Egli mi ha dato 0 dolore per comprender�la meglio. Gli domandai la ricchezza per possedere tutto e mi ha lasciato povero per non essere egoista. Gli domandai il potere perché gli uomini avessero biso�gno di me ed egli mi ha dato umiliazione perché io avessi biso�gno di loro. Domandai a Dio tutto per godere la vita e mi ha lasciato la vita perché io potessi essere contento di tutto. Signore, non ho ricevuto niente di quello che chie�devo, ma mi hai dato tutto quello di cui avevo bisogno e quasi con�tro la mia volontà. Le preghiere che non feci furono esaudite. Sii lodato o mio Signore: tra tutti gli uomini nessuno possiede più di quello che ho io». Solenne come Aronne, pietoso come si immagina potesse esserlo Gesù, il Papa imixme le sue mani sul capo dell'atleta dimezzato e questi, ora, non piange; sorride buono, come un bambino senza più spaventi. Con Kirk saranno in dieci i malati cui il Papa donerà l'Unzione degli Infermi. Prima del Concilio Vaticano II era l'Estrema Unzione, oggi l'olio con cui il Sacerdote unge la fronte, le mani di clii soffre vuole essere tm vialico di rassegnazione se non di speranza. Nessuna smania o pre�sunzione miracolistica, soltanto il dono dell'amore, la pietas del Buon Samaritano. Il vecchio croni�sta riconosce quel gesto, cos�co�me riconosce nelle mani del Papa che si fermano sul capo dell'afflit�to, la stessa «amorosa imposizio�ne» fatta dal Wojtya-Palriarca ai moribondi di Madre Teresa, nella rovente estale di Calcutta, gonfia degli escrementi delle vacche, del tanfo definitivo dei bambini morti di fame sulla strada. A Roma, ieri, luceva il sole e l'aria era buona, soffiata da una mite tramontana, ma il gesto del Papa era tinello di Calcutta. E quella era la preghie�ra, la Parola della pietà estrema, della consolazione finale. E qui per concludere con più senso questa riflessione sollecita�ta da una giornata invero partico�lare vissuta in Roma, fra ventimi�la sofferenti forse per qualche momento felici, qui vorrei ricorda�re l'interrogarsi di Luciano Maz�zocchi, sacerdote-scrittore. «A che servono le mie buone opere? Per�ché trovarsi nati su questa terra senza averlo chiesto, dover cresce�re con fatica e poi morire? A nulla, se tutto è fuori della legge del�l'amore. Dio ci crea dal nulla, gratuitamente, solo perché si ma�nifesti una briciola di amore in più. Nulla è il profumo dell'amo�re». Insomma, siamo tutti «servi inutili» ed è proprio per questo che lassù Qualcuno ci ama. Accanto agli infermi che non aspettavano il miracolo, ma speravano nel conforto e pretendevano la Visibilità: l'hanno ottenutagrazie alla ostinata pietà di Giovanni Paolo II La poesia verità di Kirk Kilgour ex campione da anni paralizzato. Roma per un giorno è diventata come Calcutta città della Sofferenza Due momenti della grande riunione in Piazza San Pietro di ieri per il Giubileo dei malati A Roma sono giunti scssantamila infermi da tutto il mondo