ARBASINO I miei primi 70 anni di Maria Laura Rodotà

ARBASINO I miei primi 70 anni Letteratura, arte, spettacoli, viaggi, politica: l'autoritratto di un autore che sa dare leggerezza alle cose più difficili ARBASINO I miei primi 70 anni Maria Laura Rodotà ROMA A hai visto come li han�no incorniciati? Una co�sa orrenda un po' bache�ca un po' confessionale un po' latrina pubblica... Tutta la mostra poi sembra un mercatino di ricordini del Giubi�leo... Fatti mandare il catalogo che è meglio». Va bene, non è corretto ascoltare le telefonate altrui; Ma se il telefonatore è l'autore di Fratelli d'Italia, il più bel (l'unico vero?) romanzo conversazione italiano, ed è lui stesso un romanzo conver�sazione mobile (molto mobile), at�tendere che Alberto Arbasino fini�sca di parlare è un piacere da teatro; di un teatro che, lui lo dice sempre e se ne dispiace, non esiste più. Rimane lui, che viaggia, conti�nua a lavorare e il 22 gennaio compirà settant'anni. E, scrivereb�be lui imitando le romane trucide, «signora mia, non ce se crede». In ottima forma, in cardigan beige su divano beige in un salotto in cui tutto è beige tranne le migliaia di libri, alto e miracolosamente quie�to dietro il casino di piazzale Flami�nio a Roma, spiega cortese che la sua vita non è interessante. «Le vite personali della secQjjda metà del Novecento sono di nessuna importanza. Quelle della prima me�tà erano un'altra cosa. Ma quando li incontravo, quei mostri sacri, non sapevamo né io né loro che sarebbero stati gli ultimi». Gli ultimi sono tantissimi, da W.H. Auden a Francois Mauriac, da Roberto Longhi a T.S. Eliot, da Luchino Visconti ai grandi musico�logi. Tutti conosciuti e frequentati da Arbasino quand'era giovane, «laureato abbastanza bene in Giuri�sprudenza», subito annoiato dagli organismi intemazionali dove vole�va entrare, e deciso a trasformare «il passatempo della domenica e delle vacanze, la letteratura, in mestiere free lance». Col tempo, è diventato assai di più: per anni apripista culturale intemazionale (libri-musica-arte-teatro) imitato e citato dagli italiani più evoluti (e dai mondani più colti). E scrittore importante, da L'anomimo lombar�do e Le piccole vacanze in poi. Di romanzi e di saggi che non sono saggi mapastiches, riflessioni, reso�conti, ricordi, aforismi, rimandi infiniti. Anche se «non so cosa ne pensino i lettori veri, e se leggano veramente i miei libri». O forse lo sa, perché dei Fratelli d'Italia, il suo capolavoro («effettivamente un bel libro») indica il modo in cui i lettori lo godono veramente: «Data la lunghezza, lo si apre a caso ed è come entrare a un ricevimento: dopo qualche pagina, uno entra in una conversazione, riprende i fili e ci rimane un po'». La storia del�l'estate italiana di due amici nei primi Anni Sessanta, tra Roma, Spoleto, Venezia, feste, pettegolez�zi, monologhi seri in tono frivolissi�mo sui mali nazionali, rimorchi di soldati Nato e incontri con mostri sacri bizzosi, è stata riscritta qual�che anno fa: «Volevo, sotto forma di conversazione leggera, far passa�re temi importanti che in genere occupano lunghi tomi editi da Ei�naudi e Laterza». Arbasino lo fa anche nel resto del tempo, per la verità. Caso ano�malo («maroinale nella manualisti�ca alto-scolastica che privilegia le grandi correnti») di lombardo di Voghera che prima di teorizzare la sprovincializzante «gita a Chias�so», ne aveva fatte di svariate. Con sorprendente facilità, racconta. De�ciso alle belle lettere, aveva comin�ciato a collaborare al Mondo di Pannunzio, a Paragone con Pierpa�olo Pasolini, Giorgio Bassani, Italo Calvino, a Tempo presente di Nico�la Chiaromonte: «Ombroso, diffici�le, ma esperto di cose anglosasso�ni», quindi felice di far scrivere un giovanotto «che aveva fatto bene inglese al liceo». E allora, racconta, scrivere e conoscere era facile; «Non c'erano i grandi media, non c'era la tv, la maggior parte dei mostri sacri americani, francesi, inglesi non aveva lo sbocco italiano delle terze pagine. Erano essenzial�mente autori di libri». Contenti di farei intervistare da stranieri scono�sciuti, di parlarci a lungo, di tutto. Come faceva Arbasino, affittando stanze per mesi a Londra e Parigi, andando a tutti gli spettacoli e concerti umanamente possibili, leg�gendo, e scrivendo. Da monopoli�sta: «E continuo a stupirmi perché non lo hanno fatto in tanti, i miei coetanei. Si poteva, anche senza particolari beni di fortuna». Si pote�va, con l'inarrestabilità arbasiniana. Di uno che, anche in Italia, senza studi letterari musicali o artistici, si inventò un'ultra-forma�tiva, ultra-stimolante accademia personale itinerante nel suo Paese. A Milano fino al '57, poi a Roma. «A colazione, al caffè, in trattoria. Una grande scuola, gente come Roberto Longhi, Giuliano Briganti, Cesare Brandi, tutte persone di grande generosità che amavano cenare fuo�ri. Dal punto di vista del gusto e della pratica letteraria ho avuto la fortuna di vedere spesso Gadda, Palazzeschi, Comisso, Luciano Anceschi. In realtà erano persone solitarie, con vile personali diffici�li, ma di grandissima intelligenza e disponibilità. Lontani dalle prime iso e di potere culturale, il gruppo di Alberto Moravia, i giornali, la Rai-tv, con talvolta un contomo di questuanti e scocciatori, contenti di trovare ogni tanto qualcuno con cui andare al ristorante». Non c'erano solo loro, i mostri sacri da visitare fuori e i maestri in patria. C'era anche la Roma anni Cinquanta-Sessanta di cui Arbasi�no racconta, testuale, come nel titolo del libro di Eugenio Scalfari, che «la sera andavamo in via Vene�to». Però «non prima dell'una, non ci sarebbe stato nessuno». Prima «si faceva qualche telefonata (con Ennio Flaiano, con Sandro De Feo dell'Espresso, ndr), si chiamavano altri amici per un teatro o un cinema, poi si andava a mangiare, e tra l'una e le due si finiva in via Veneto. Aveva gli orari che hanno oggi certe discoteche». Certo, a qualche straniero ama�to da Arbasino quest'allegra Rometta non piaceva. Come a Mary McCarthy, che stava scrivendo/Z gmp pò e, agli spettacoli di Luchino Visconti si imbestialiva: «Arrivava�no in scena alabardieri, trombettie�ri, di tutto, e lei si metteva a gridare: where are the monkeys?, dove sono le scimmie?». Ma la stessa McCarthy, nel carteggio con Hannah Arendt tradotto da Sellerio, in una lettera in cui lamenta pochezza e cafonaggine delle feste romane, aggiunge: «L'unica perso�na che ha mostrato un briciolo di educazione (cioè che mi ha preso la pelliccia e mi ha parlato con vivaci�tà) era un giovane lombardo non ancora romanizzato». Arbasino ov�viamente, che l'ha letta da poco ed è tutto contento. Tanto per non romanizzarsi troppo, intanto, Arbasino t'ondava con altri il Groppo '63. «Che è durato molto meno delle maldicen�ze su di noi, secondo le quali eravamo a caccia rli posti e di potere. Eravamo diversissimi, c'erano Giorgio Manganelli ed Edo�ardo Sanguineti, Nanni Balestrini e Umberto Eco. Eravamo un gruppo poco omogeneo, ma nessuno vole�va diventare caposen/izio o vicesin�daco di qualcosa». Ma insomma, cos'era davvero? «Una confedera�zione di coetanei chi; aveva deciso di cercare di usare quell'inizio di benessere nazionali; per fare la letteratura che ci piaceva, non stretti dal biso�gno di scrivere puttanate per mantenere la fa�migliola». E an�che dopo «io ho sempre scritto quello che mi piaceva, come uno che si cuci�na i piatti che gli piacciono. Se avessi intrapre�so la carriera del bestsellerato, del sistema dei premi, avrei fatto altro, avrei fatto ricerche di mercato». E poi «nel gruppo '63 almeno c'erano scrittori e critici. Ogni generazione dovreb�be avere un'energia critica e creati�va propria. Oggi i "giovani scrittori" quarantenni vanno da critici set�tantenni in cerca di avallo. E' una forma di parassitismo, di assisten�zialismo. Io andavo a casa del grande Emilio Cecchi, ma non so se abbia mai letto un mio libro. Parla�vo con Gadda, ma non gli ho mai chiesto una recensione». Tra le cose che in seguito Arbasi�no non ha chiesto, oltre alle recen�sioni, è la rielezione. E' stato depu�talo repulMcano dair83 air87, ma a raccontarlo spende un deci�mo del tempo che usa per dire di quando cercava i primi microsol�chi di Schoenberg e Bruckner; «Il deputalo semplice è un peone, una pedina. Conta solo il dito che preme sul tasto per votare, non il suo contributo di esperienza e di pensie�ro. Tanto varrebbe che i capigrup�po dicessere "io ho tot deputali" e premessero un bottone rolleltivo». Cosi, dai cinquantasette ai quasi settanta, Arbasino si è rimesso a fare l'Arbasino full limo, viaggian�do, scrivendo, libri e articoli, andan�do a spettacoli concerti e musei. E sui musei, prima di lutto sul nuovo Getty californiano di Richard Meier e sulla sua influenza, è il suo libro in uscita. Le muse a Los Angeles', «Il primo titolo non ambi�guo della mia vita; il più ambiguo è stato Sessanta posizioni, ed erano ritraili di accademici». Ma c'è un altro ritrailo, un disegno, nel corri�doio fuori dal salotto beige. Insie�me a dei Maccari, a due lito di Lichtenslein «comprate per 50 dol�lari tanti anni fa», a incisioni di FUssli e Fantin-Latour, E' «Arbasi�no in un allo di industria cultura�le». Gliel'ha fatto quando erano giovani Pierpaolo Pasolini, e «non sembro io, è uguale a Pasolini». Sul serio. Quasi un presagio dell'Aitasino per fortuna felicemente sui setlanla, puro forse un \m' Pasolini altoborghesf, Intristito dall'omolo�gazione e custode ferocemente chic di tanti ricordi della cultura del Novecento. Che dice «non sono nostalgie di vegliardi», e si spera proprio di no. La lunga stagione di un protagonista ammirato e imitato Gli esordi al «Mondo» e il Gruppo'63 «Io ho sempre scritto quello che mi piaceva Il bestsellerato'Quella carriera non fa per me* Alberto Arbasino con Gaia Servadio al Plper di Roma negli Anni 60. Qui sotto, in una foto del 1969; in basso, nella sua casa romana, oggi