I marchio conta più del prodotto, la nostra vita è a misura di sponsor di Gianfranco Marrone

I marchio conta più del prodotto, la nostra vita è a misura di sponsor I marchio conta più del prodotto, la nostra vita è a misura di sponsor N principio erano i prodotti: c'era la materia prima, qual�cuno che la lavorava, e veni�vano fuori cose che prima non c'erano: da usare, da consu�mare, da vendere. Per venderle si faceva la pubblicità, che informa�va le persone di ciò che arrivava sul mercato, magnificandone le proprietà. In questo modo, il ciclo produzione-commercializzazio�ne-vendita-consumo era chiaro: si sapeva quel che si acquistava, chi l'aveva fatto, dove veniva prodotto e in quali condizioni lavorative. Poi sono arrivate le marche, garanti dei prodotti, e tutto è cambiato. Non compriamo più le cose per quel che sono ma per le marche che esibiscono, le quali ci rassicurano sulla loro qualità, se ne assumono la responsabilità e chiedono fiducia. La marca è una specie di contratto che stipulia�mo con le aziende produttrici. grazie al quale in cam�bio di una certa fedel�tà d'acquisto ottenia�mo una specie di im�plicito certificato di garanzia. Il perfetto consumatore non è chi sa riconoscere la bontà di un prodotto sulla base della propria esperien�za pregressa, ma chi sa districarsi nell'universo delle marche, valu�tare i messaggi che esse inviano, interpretare i segni della concor�renza . Acquistare non è ima prati�ca ma una forma di conoscenza. Tuttavia, anche questo è cam�biato. Lo spiega la giornalista canadese Naomi Klein in No logo, un libro che negli Stati Uniti è già un cult del movimento di conte�stazione contro la globalizzazio�ne, e che anche in Italia viene adesso salutato, un po' enfatica�mente, come il "manuale del popo�lo di Seattle". Klein spiega come da una decina d'anni la crescente tendenza a un'economia planeta�ria, dove un gruppo ristretto di multinazionali vale e comanda più di molti governi statali, stia profondamente modificando il rapporto tra le marche e i consu�matori. Grandi aziende come Nike, Shell, Starbucks, Coca-co�la, Gap, Wal-Mart, Mac Donald's, Intel, con i loro rispettivi concor�renti, tendono a mettere fra pa�rentesi le cose che vendono per enfatizzare sempre più se stessi, affidando ai propri marchi la responsabilità della loro presen�za sul mercato. Nell'economia globale le gran�di aziende si sganciano dal fardel�lo della produzione delle cose RECENGianMa SIONE anco one reali, appaltando ad altri, spesso nel terzo mondo, il lavoro con�creto e la sua gestio�ne quotidiana. In tal modo, esse diventa�no sempre più imma�teriali, puro nome e pura immagine, e in�vestono m.pubblicità (spesso raf�forzata da testimonial d'eccezio�ne) quanto risparmiano dalla pro�duzione. Una marca, oggi, non garantisce nulla circa le cose materiali che pure vende, ma deve sempre più affermare la propria presenza nel mondo, fa�cendosi portatrice di concetti ge�nerici e confusi la natura, lo sport, la musica, la gioventù con cui le persone possono facilmen�te identificarsi. La marca è una filosofia di vita che ci chiede un'adesione affettiva, la quale non ha nulla a che vedere né con la pratica del consumo né con il sapere sui prodotti. Il valore supremo a cui le marche tendono, prendendolo dalla strada e modificandolo ai propri fini, è quello del cool, termine intraducibile che vuol dire qualcosa come "figo", "di tendenza", ma anche per altri versi "tranquillo", atarassicamente distaccato dai problemi mate�riali dell'esistenza. Sono cool, per esempio, i musicisti hip-hop delle innercities americane, a cui guar�dano come modello i ragazzini. neri e non; e alcune grandi azien�de li hanno subito ingaggiati co�me testimonial dei propri logo. Si crea cos�una spirale senza fine: si è griffati perché si è cool, ma si è cool perché si è griffati. In questo modo, illustra Klein, i logo hanno invaso aspetti e momenti della vita quotidiana e dello spazio pubblico sempre più consistenti. La musica, lo spetta�colo, lo sport, la scuola, l'universi�tà, la ricerca scientifica, l'informa�zione, la pohtica, ma anche le strade o i parchi cittadini oggi esistono in funzione degli spon�sor che accettano, dei marchi che esibiscono, di ciò che possono assicurare in termini di ritorni pubblicitari alle aziende che inve�stono su di loro. Ma siamo certi che questo mondo immateriale, dove l'imma�gine pervade ogni aspetto dell'esi�stenza, non^ abbia un risvolto sostanziale? È sicuro che la comu�nicazione pubbhcitaria che impo�ne marchi dappertutto sia a sen�so unico, che non ci sia da parte dei destinatari nient'altro da fare che accettare passivamente il mondo della griffe? La seconda parte del libro di Klein offre una risposta precisa e articolata a questi interrogativi, mostrando come lo strapotere mondiale del marchio abbia finito per avere un clamoroso effetto boomerang sul�le stesse aziende che lo hanno diffuso. Da una parte è venuto fuori come l'immaterialità simbolica dei logo abbia una sua base materiale fatta, diciamo così, di lacrime e sangue: è il lavoro nero, spesso minonle e femminile, che si svolge in moltissime fabbriche del terzo mondo con situazioni lavorative inumane. D'altra par�te, le proteste contro il marketing mondiale hanno seguito le sue stesse strategie comunicative: la gente ha iniziato a prendersela con i logo, distruggendoli in ogni occasione possibile. Klein spiega come il tipo di contestazione con�tro la globalizzazione sia una protesta che usa le stesse armi del nemico: quelle del segno. Certi logo hanno finito per simbo�leggiare non più la filosofia di vita che le aziende volevano dif�fondere, ma i modi in cui quelle stesse aziende hanno sfruttato la manodopera. Per questo i cosid�detti attivisti voghono annientarli. Cos�facendo, però, corrono dei rischi. Prendendosela con dei sim�boli, finiscono per lasciare intat�to ciò che essi rappresentano. E soprattutto (cosa che Klein nelle ultime pagine ammette) prendo�no di mira solo i simboli più in vista, facendo cos�il gioco dei loro concorrenti, i quali continua�no ad agire indisturbati pur usan�do gli stessi metodi. Ma soprattut�to, anche la protesta contro la globalizzazione sta finendo per diventare un marchio di se stes�sa, una "filosofia" che il marke�ting aziendale risucchia al pro�prio intemo e rilancia ricavando�ne grossi guadagni. Lo testimonia il libro di cui stiamo parlando: ha un logo che lotta contro la dittatu�ra dei logo, ricalcando esattamen�te il meccanismo che vorrebbe smontare. Una prova? Andate a vedere il sito: www.nologo.org. «NO LOGO» DI NAOMI KLEIN, BESTSELLER DEL MOVIMENTO ANTIGLOBAUZZAZIONE: MA CHI ATTACCA SOLO I SIMBOLI RISCHIA DI LASCIARE INTATTO CIO' CHE RAPPRESENTANO Naomi Klein No Logo. Economia globale e nuova contestazione trad. di Equa Trading e S. Borgo, Baldini A Castoldi, pp. 454, L. 32.000 SAGGIO La giornalista americana Naomi Klein, autrice di «No Logo» RECENSIONE Gianfranco Marrone

Persone citate: Castoldi, Klein, Naomi Klein

Luoghi citati: Italia, Seattle, Stati Uniti