Che fatica regolare il mondo

Che fatica regolare il mondo Che fatica regolare il mondo d�Boris Bìancheri ■■BSBHHB uè tra 1 più illustri opinionisti americani dialogano in W questo numero di Global sul futuro del mondo. Su una cosa sono d'accordo: la nostra è un'epoca di tran�sizione, gli equilibri planetari e il nostro stesso modo di vivere saranno tra poco (dieci anni? vent'anni? Le loro previsioni di�scordano) destinati a cambiare. In meglio o in peggio? Verso l'ordine o verso il caos? Sembra a prima vista un altro dibattito sui benefici e le malefatte della globalizzazione. Uno di quei dibattiti che si riaccendono ogni volta che a Seattle, a Praga, a Davos (o tra poco a Genova) migliaia di persone arrabbiate, soprattutto giovani, riversano sui grandi della terra la loro avversione verso la globalizzazione, mettendo in questa parola tutto ciò che non amano e anche al�cune cose che amano senza saperlo. Sono, temo, dibattiti spesso superati e quei manifestanti, quei giovani, sono cattivi combattenti perché sono essi stessi globalizzati. Ricordano quei mandarini cinesi del XVII secolo che difendevano la purez�za della tradizione contro l'invadenza mancese e sembravano non accorgersi che i mancesi erano già lì, sedevano sul trono, occupavano le cariche pubbliche, governavano le province. La globalizzazione non è qualcosa che si può combattere per�ché è già dentro di noi e lo è in modo irreversibile: é irreversibile che lo spazio e il tempo siano ridotti a zero, che le informazioni viaggino istantaneamente, che le merci siano prodotte anziché in un solo Paese in più Paesi secondo le disponibilità della forza lavoro, che i capitali vadano dove vengono meglio retribuiti, che sempre più numerosi siano quelli che si trasferiscono altrove se altrove vi sono migliori condizioni di vita. Certamente di tutte queste opportunità trae profitto anche chi non dovrebbe, la cri�minalità, per esempio, che oggi appunto è diventata globale. Certamente, la mobilità delle persone non produce solo cose positive come lo scambio delle idee e delle esperienze, ma an�che cose negative come le reazioni xenofobe. Ogni cosa ha il suo rovescio e non vi è nulla al mondo di perfettamente e inte�gralmente buono. Ma discettare se la dimensione globale abbia più vantaggi o più svantaggi è vano; non è vano, invece, far s�che certi fenomeni della dimensione planetaria siano controllati e disciplinati, perché è ovvio che una libertà assoluta di tutto non è concepibile. Non lo è al livello degli Stati nazionali e non lo è a livello planetario. Questa è la vera incognita che pesa sul nostro futuro, quella che divide il moderato pessimismo di Bob Kaplan dal moderato otti�mismo di Robert Wright. Perché la necessità di regolare feno�meni globali a livello globale comporta che gli Stati nazionali si mettano spontaneamente d'accordo ogni volta sulle regole da introdurre, e su come queste regole debbano essere applicate e se e in che misura debbano farsi delle eccezioni e in favore di chi; il che non è sempre possibile e, anche quando lo è, è diffici�le e lungo. Oppure comporta che gli Stati nazionali deferiscano ad altri, cioè a un organo intemazionale, il compito di decidere queste cose per conto loro. Entrambe le opzioni sollevano un interrogativo: ammesso che si stabiliscano delle regole, chi le farà rispettare? Abbiamo visto la questione porsi drammatica�mente in un'area che appartiene tipicamente alla dimensione globale, quella dei diritti umani. Anche se tutti credessero (e non è cosi) che vi siano alcuni diritti dell'uomo fondamentali e irri�nunciabili dovunque quell'uomo si trovi, chi dovrebbe interveni�re quando quei diritti venissero violati? La seconda opzione, che appare più moderna ed avanzata, e cioè che le regole globali vadano poste da un organo in�temazionale globale come per i problemi del commercio inter�nazionale si è fatto con la creazione della Wto -, comporta un rischio per la democrazia, ed è forse questo il rischio che i conte�statori di Seattle più o meno consciamente percepiscono: più in alto le decisioni vengono prese, meno la gente le sente proprie. Questo è il sentimento ette è alla base delle diffidenze inglesi verso le deliberazioni di Bruxelles (che pure hanno dimensione europea e non mondiale), questo è il sentimento che induce gli americani a sottrarsi a ogni specie di meccanismo intemazional�mente vincolante anche e qui sta il paradosso se essi stessi ne sono all'origine. L'amministrazione Bush esaspera oggi que�sto sentimento. All'alternativa ordine o caos non è facile dunque dare risposta. Indietro, a un medio evo politico e culturale, il mondo non può tornare: la sua attuale evoluzione non è il frutto della forza, che può sempre essere sovvertita, ma della scienza e della cono�scenza, che sono irreversibili. I fenomeni di scala mondiale ri�chiedono d'altronde, si è già detto, regole di scala mondiale. L'esercizio della democrazia, cos�come noi la intendiamo, ha una dimensione locale o nazionale. Per poter assumere una dimensione globale, non sono suffi�cienti appelli e buone intenzioni: la struttura stessa delle nostre democrazie deve trasformarsi. Se vogliamo che sia l'ordine, e non il caos, a prevalere. O i it M: Anarchici gettano bottiglie Molotov a Quebec, Canada

Persone citate: Bob Kaplan, Boris Bìancheri, Bush, Molotov, Robert Wright

Luoghi citati: Bruxelles, Canada, Davos, Genova, Praga, Seattle