Mancuso, la campagna come un'arringa

Mancuso, la campagna come un'arringa Mancuso, la campagna come un'arringa Palermo: fra attacchi a Di Pietro, ricette e citazioni personaggio Aido Camillo inviato a PALERMO SCUSI onorevole, «sono onora�to non onorevole», scusi Ec�cellenza, «non mi piace esse�re preso in prò di fronte a terze persone, anzi chiederei agli amici Ferrara e Buttafuoco di non chia�marmi più Sua Eccellenza», scusi presidente, «no sono soltanto vice�presidente del mio condominio», come vuol essere chiamato allo�ra? «Mi chiami dottore, dottore Mancuso». Bene, dottor Fihppo Mancuso, come va la campagna elettorale? «Mi astraggo. Dal risul�tato, dalla rissa, da tutto. Lei però non faccia altrettanto, sulla pasta alla Norma deve mettere più ricot�ta salata». Astrarsi gli riesce benissimo. Quand'era Guardasigilh, ad Alber�to Staterà che gli domandava per�ché non avesse letto al Senato l'attacco a Scalfaro dopo averlo diffuso per iscritto, rispose che «la legge di gravità e già evidente in natura, per questo non capisco il suo interesse a interrogarmi e a interrogarsi sull'evidenza di con�notati logici e materiali». Non che non faccia campagna, anzi batte case salotti ville convegni a ritmi forsennati anche per chi non ha 79 anni, ma nel contempo si astrae; ad esempio preparando un faldone «alto come un diziona�rio di greco», lingua nella quale gli accade di conversare con la mo�glie signora Armanda, dal titolo provvisorio Detti e fatti di Caselli Giancarlo in Palermo. Non è però Caselli il suo contraltare naturale, anzi Caselli va capito, «come pote�va un torinese comprendere la Sicilia?», l'antiMancuso è Di Pie�tro, dal linguaggio tanto sgramma�ticato quanto il suo è forbito, dal tratto tanto duro quanto il suo è morbido. Di Pietro che vede nei Mancuso il simbolo di una antica magistratura attenta alle forme più che ai reati, Mancuso che vede in Di Pietro «un buon poli�ziotto di quartiere, che tiene puliti i marciapiedi e dà uno scappellot�to allo scippatore», ma «vada a dirlo a Contrada che nel giure la forma non è sostanza. E mi dia retta, aggiunga altra ricotta sala�ta». Non è vero che non lo chiama�no Eccellenza, e come lo salutano i notabih riuniti per un cocktail (cochetàil in mancusese) sulla ter�razza al dodicesimo piano di un avvocato abbiente con vista dal monte Pellegrino al mare, «sa benedica», «la ossequio», «mi com�piaccio». Lui, si astrae: «Il paese si è tramutato nei propri difetti». Il collegio di Palermo centro non dà preoccupazioni, qui Forza Italia è al 3507o e contro non c'è Veltroni come nel '96 a Roma bens�Giusep�pe Bruno che ha meno della metà dei suoi anni, anche la campagna è più a sua misura, allora lo portarono pure a tagliare torte al Gilda dove nessuno avrebbe segui�to con la debita attenzione questo comizietto finissimo sul rapporto tra govemo potere popolo e legge, pare di stare in un dialogo platoni�co anziché in una nazione «mala�ta in forma ingravescente» da un decennio, «dal giorno infausto in cui fu eletto U despota». Scusi dottore, ma lei non era amico di Scalfaro? «Godetti della sua sti�ma, mai la ricambiai. Questo ango�lino non è ancora imbiancato, capisco che la ricotta non le piac�cia, non è infornata», pazienza. Gira in cappotto nel tiepidissi�mo maggio palermitano, arringa Rovani altissimi di Forza Italia evando arti da puffo, «non mi illudo di meritare quel che chiedo, però lo chiedo», a tratti pare ima figura retorica vivente, «ma no, sono soltanto un impiegato in pensione». No, gli dicono lei è stato l'unico che ha tentato di fermare i magistrati persecutori di Milano. E lui: «Mai ascrivere a merito l'adepimento dei propri doveri». E' esigente con se stesso e con i colleghi, quando Domenico Sica presentò il telefono verde antimafia parlò di «rigurgito di rivoltante medievalità rimosso da secoli dalle genti civilizzate», quando Falcone chiamò i procura�tori generali in via Arenula fu l'unico a restare a casa «il diretto�re di un ministero non convoca, semmai viene convocato» -, quan�do vide le foto di Borrelli a cavallo chiosò: «Siamo magistrati, non damerini o pistoleri». Un giorno, quando presiedeva la corte d'ap�pello di Roma, andò in ufficio con 40 di febbre, e tacitò cos�la signo�ra Armanda che cercava di tratte�nerlo: «Oggi ho camera di consi�gho, non posso tenere dentro un innocente per un po' di febbre». C'è qualcosa di più nobile che liberare un innocente? «Sì, difen�dere un colpevole». Avrebbe mol�to altro da dire, ad esempio su Scarpinato e Travaglio, «ma ho già troppe querele» tra ricevute e date, di cui alcune notevoli: a un cronista che telefonò alla sua vici�na di casa per sapere se Berlusco�ni era andato a trovarlo; alla suddetta vicina «che mi ha avvele�nato l'edera e rischiava di far morire il mio nipotino», Filippo, è ovvio. Non ne darà altre, la sua missione sarà «svelenire il clima pericoloso che respiriamo». Bello tornare a Palermo, Man�cuso si considera siciliano di scoglio non di mare aperto anche se vive a Roma da 51 anni, «io sognavo di fare il pretore a Bagheria, al massimo il giudice a Caltanissetta, ma allora le norme non scritte prevedevano che il primo classificato al concorso andasse nella capitale». Bei ricordi però, il foro di Palermo del dopoguerra, i duetti letterari alla radio con il cognato di sinistra Sarino Costa, un tratto spagnolo, le cose che ancora ama, le rose rosse, la stes�sa donna, i bicchieri di cristallo, la musica lirica, una goccia di lavan�da nel fazzoletto candido. «Mac�ché, troppo pandispagna e troppa poca ricotta in questa cassata. Caro amico, diffidare dei ristoran�ti che si dicono tipici e degli uomini che dicono di avere un alto senso dello Stato: di solito entrambi lo fanno per fregare il prossimo». L'ex ministro della Giustizia Filippo Mancuso