Perché le buone notizie non fanno notizia?

Perché le buone notizie non fanno notizia? Perché le buone notizie non fanno notizia? Guerre e attentati hanno il primo posto in tv e sui giornali. Ma non è vero che nel mondo cresce il disordine. Sono i media a falsare la visuale di G. Paschai Zachary Sui disordini in Medio Oriente sappiamo tutto. In Spagna i terroristi baschi hanno ripreso gli attentati. Migliaia di neri africani ven�gono costretti ad abbandonare la Libia a causa di quello che gli osservatori in�ternazionali definiscono un vero e pro�prio pogrom. La lista delle carneficine e delle crudeltà nel mondo sembra non avere fine. Conflitti di natura etnica, di natura economica, o anche diffici�li da definire, fanno la parte del leo�ne nei notiziari dall'estero; ne risulta l'immagine vividissima di un mondo che va a pezzi. Eppure non è così. Oggi le forze che tengono il mondo insieme sono robu�ste quanto in passato, se non di più. I media dovrebbero sforzarsi di alimen�tare non il cinismo, ma una speranza razionale, fondata sui fatti... Le prove a favore della speranza sono convincenti. Basta guardare ai luoghi ignorati dalla Cnn. Per esempio, l'ex Repubblica sovietica di Estonia, dopo aver escluso dai diritti di cittadinanza la maggior parte della ampia minoranza etnica russa, ha rime�diato all'errore approvando leggi più eque e riducendo in tal modo la spinta separatista. Il Senegal e il Ghana trag�gono beneficio dalle loro diversità etni�che interne, malgrado i conflitti tra etnie devastino altri Paesi dell'Africa occiden�tale. L'Irlanda, per secoli Paese di emigrazione, oggi si dimostra capace di accogliere migliaia di immigrati, non tutti bianchi, senza registrare tensioni. In Macedonia, il partito della minoran�za albanese fa parte di una coalizione di governo assieme al più importante partito della maggioranza slava, evitan�do cos�la violenza etnica che ha squas�sato il resto della ex Jugoslavia. Benché nuovi focolai di instabilità ovvia�mente si creino, la tendenza complessi�va verso un mondo più pacifico è ine�quivocabile. L'estate scorsa, il Center for International Development and Conflict Management dell'Università del Maryland ha pubblicato lo studio più completo finora realizzato sui conflitti in�terni agli Stati, condotto utilizzando una quantità enorme di dati raccolti nel cor�so di mezzo secolo e riguardanti più di 200 aree che sono state teatro di scon�tri etnici. I risultati della ricerca sono chiarissimi. Sul totale dei conflitti in cor�so sono più numerosi quelli che eviden�ziano una tendenza alla ricomposizio�ne, rispetto a quelli che si inaspriscono. Oggi, il numero di guerre scatenate da spinte secessioniste è il più basso dal 1970. Siccome il numero di proteste etnico-politiche emergenti definite come ribellione o dissenso organizzati intorno a richieste collettive è diminuito da una media mondiale di 10 per anno, sul fini�re degli Anni 80, a una media di 4 per anno dopo il 1995, la ricerca conclude che le sorgenti di potenziali conflitti futu�ri si vanno prosciugando. Come era facile prevedere, la ricerca dell'Università del Maryland non ha ispi�rato titoli vistosi sui giornali. Le buone notizie non fanno notizia. Secondo An�thony Borden dell'lnstitute of War and Peace Reporting di Londra, «la guerra è sexy, la pace no». Analogamente a quanto si osserva nei notiziari televisivi americani, che offrono una crescente copertura alla cronaca nera malgrado la criminalità sia diminui�ta, lo spazio riservato ai conflitti nei Paesi esteri è aumentato, malgrado il mondo sia diventato più pacifico. Secondo l'os�servatorio sui media del Center for Me�dia and Public Affairs, «nel corso degli Anni 90 le notizie dall'estero hanno ri�guardato soprattutto disordini di caratte�re sociale: guerre, colpi di Stato, manife�stazioni ecc. A partire dal 1994, almeno un terzo dei servizi dall'estero ha trattato questo tipo di conflitti».

Persone citate: Borden, Peace, Public