FILETTO e BAROLO.

FILETTO e BAROLO. FILETTO e BAROLO. Quattro cen di Capodanrtó RICORDI io Ghmbarottn SE Georges Simenon ti invita a trascorrere le sera di Capo¬ danno a casa sua, a Losan¬ na, puoi pure sospettare che l'invito nasconda un tra¬ nello ma non puoi sottrarti: quando mai ti capiterà un'oc¬ casione simile. Con gli altri invitati ci stavamo ancora scrollando la neve dai cappotti, che il vecchio Georges già ci assilla¬ va con le sue richieste. In breve, aveva esaurito la sua scorta di nomi e cognomi da dare ai perso¬ naggi. Un intera parete del suo studio coperta di guide del telefono francesi e belghe non gli era basta¬ ta per gli oltre 1800 romanzi firma¬ ti con 20 diversi pseudonimi. Ne voleva altri da noi. Gli ho regalato una «Maria Maddalena Peloso Cipoha» (secondo Sim «una preside grassa che scrive poesie, innamorata persa di Vittorio Sgar¬ bi»), un «Filiberto Cacheremo d'Osa- sco» (l'amministratore delegato di una grande azienda di profumi che ama travestirsi da vigile del fuoco). Saprete che il nostro ospite è fissa¬ to con i numeri, in particolare con il 12. Passeggia in giardino contan¬ do 144 passi, 12 al quadrato; attor¬ no alla tavola eravamo in 12, biso¬ gnava bere in 12 sorsi e dividere quello che avevamo nel piatto in 12 bocconi prima di iniziare a mangia¬ re. 12 passi dividevano la sala da pranzo dalla cucina, passi che Sime¬ non, per calmare la sua ansia di perfezionista, quella notte eseguì un numero infinito di volte. Meno una, quando chiese inaspettata¬ mente a me (Monsieur Jambecas- sée) di andare in cucina a prendere l'aceto balsamico. Non erano trascorsi tre minuti dal mio ritorno che il padre di Maigret riprese il suo andirivieni, ma questa volta rientrò subilo in sala, terreo in volto, appoggiandosi alla parete e ci comunicò affranto che la stupenda torta «Mont Blanc» che lui aveva fatto confezionare dalla vedova Couderc era sparita. «Era là, troneggiante al centro del tavolo, una montagna di panna e di marro¬ ni, e ora non c'è più», concluse sin¬ ghiozzando. E pun¬ tando lo sguardo su di me, uno sguardo più bru¬ ciante di un'accu¬ sa esplicita. «Quando lei mi ha mandato a prendere l'aceto balsa¬ mico», ho provato a difendermi balbettando, «non c'era nessuna torta sul tavolo, ci fosse stala l'avrei notata, goloso come sono». Ecco, quel «goloso» proprio non dovevo dirlo. Ero l'unico fra i commensali, oltre al padrone di casa, a essere andato in cucina. Eppure la torta non l'avevo, non¬ ché mangiata, neanche vista. Già percepivo che gli altri si coalizzava¬ no contro di me, li sentivo mormo¬ rare «è un amico fraterno di Edoar¬ do Raspelli», «ah'ultiiuo Salone del Gusto di Torino ha vinto il premio "Lavandino d'Oro"». Mi vergogno a dirlo, ma quell'incresciosa situazio¬ ne mi aveva fatto perdere ^appeti¬ to, così quando il vicino di sinistra mi passò il piatto di portata con una dellTiosa terrina di anatra mu¬ ta lo passai al mio vicino di destra senza servirmi. Subito, dall'altra parte del tavo¬ lo, sentii mormorare: «Lo credo che non ha più fame, dopo quel po' po' di pan^a e marroni che si è sparato in vena...». Così, per rintuzzare le accuse, ho dovuto sforzarmi di mangiare. Ma non è servito a nien¬ te. Avete pi risente i romanzi di Simenon pubblicati da Adelphi? Al termine della cena non solo ho confessato ma ho finito per convin¬ cermi io stesso di avere effettiva¬ mente divorato la «Mont Blanc» della vedova Couderc. DAOLO Conte m'invita a tra¬ scorrere la sera di Capodan¬ no a casa sua: «Vieni, sare¬ mo in otto, ci saranno due uova sode, con un quarto d'uovo a testa terremo a bada il colestero¬ lo». E' la sua poetica. Paolo gioca al risparmio, come Eugenio Montale che dipingeva i suoi quadri usando i fondi m caffè. Lui si mette al Georges Sime non margine delle storie che racconta, un confine che spesso è una came¬ ra d'albergo vuota, affacciata sul nulla. Paolo fuma mezza sigaretta, al bar ordina mezzo caffè. Costmi- sce le sue canzoni con materiali poveri, di scarto, vecchie cartoline, vecchie copertine di dischi, contro¬ marche del teatro Alfieri, vecchie storie sentite mille volte al bar. Per gli amici Paolo Conte è un dandy polveroso e supremo, che si nega con squisita cortesia e noncha- lance. Rievochiamo una lontana adolescenza astigiana. Lui era già un leader naturale e indiscusso e io strisciavo per essere ammesso nel¬ la sua cerchia di amici. Organizzò una squadra di calcio e io g i avevo giurato che sapevo giocare a pallo¬ ne. Non era vero, calciavo - male - solo col piede sinistro e quando mi arrivava un pallone sul destro lo stoppavo e, prima di calciare, ruota¬ vo di 180", in tempo per farmelo sottrarre dagli avversari. Paolo urlava di rabbia g mi cacciava in porta, un posto dove nessuno voleva andare. Morivo dalla paura di non essere all'altez¬ za; la vista di un avversario col pallone tra i piedi che caracollava verso la mia porta mi procurava violenti movimenti intestinali. Se l'avversariQ se ne accorgeva ero salvo, perché piom¬ bava a terra piega¬ to in due da ride¬ re. Toccava al capi¬ tano dell'altra squadra urlare di rabbia. Per liberar¬ si di me, amici e avversari s'inven¬ tarono che c'era bi¬ sogno di qualcuno che, stando ai bor¬ di del campo, scri¬ vesse la cronaca delle partite. Battu¬ te a macchina su carta carbone slavano incollale per qualche gior¬ no in angolo della vetrina de bar Roma, frequentato dagli sportivi. Ho fatto follie per entrare a far parte del primo complesso jazz messo su da Paolo conte, la «Asti New Orleans Jazz Band», dove lui suonava il trombone a coulisse e il vibrafono. Come non sapevo gioca¬ re a pallone cosi non sapevo una nota di musica. Un giorno tutta la band è piombata a casa mia; abbia¬ mo deciso che devi suonare la cornetta. Avevano visto nella vetri¬ na di un negozio di musica una tromba di seconda mano, un vero affare nel quale avrei dovuto inve¬ stire tutti i miei risparmi. In corteo siamo andati al negozio, mi hanno dato da tenere lo strumento e io l'ho impugnato come avevo visto fare da Louis Armstrong nelle foto suhe copertine dei dischi; ho comin¬ ciato a soffiarci dentro. Niente. Non usciva niente. Gli amici mi incitavano, mi battevano amiche¬ voli pacche sulle spalle, il negozian¬ te mi mostrava la sua bocca atteg¬ giata a culo di gahina; niente da Fare, per la cometta ero negato. Ripiegammo sulla batteria, ma quanto a comprarla era fuori di¬ scussione. Il nostro complesso si esibiva gratis al circolo ferrovieri (detto "I Feroci") quando l'orche¬ stra titolare, attomo aha mezzanot¬ te, si concedeva un quarto d'ora di pausa. Aspettavamo che venisse il nostro turno in piedi, la schiena contro la parete, i camerieri non potevano pretendere da noi la con¬ sumazione. Di tanto in tanto il direttore di sala proclamava al microfono; «Dama a sceglierei» e noi fissavamo la punta delle nostre scaipe lucide; se per disgrazia in¬ crociavi lo sguardo di una befano- na che faceva tappezzeria, eri obbli¬ gato a farla bahare. Toccava a noi e il batterista mi affidava il suo strumento con mille raccomanda¬ zioni, permettendomi di usare solo le spazzole. Alla seconda uscita i componenti della band decisero che c'era bisogno di uno che scrives¬ se i comunicati stampa. Guardavano me. «Posso scrive¬ re i comunicati e nello slesso tem¬ po suonare la batteria». Sbigotti¬ mento generale, superato da Paolo che disse; «E le foto? Chi le scatta le foto mentre suoniamo?». Il colpo definitivo arrivò da Luigi Bravo, che suonava il pianoforte e ora insegna antropologia all'universi¬ tà: «E poi, senza la batteria, il nostro sound migliora». Mentre parliamo Paolo sfiora inavvertita¬ mente l'angolo del tavolo e ora, credendo che gli altri non se ne accorgano,- fa in modo di toccare anche gli altri tre. «Ti ricordi di quella volta che tomavamo da Torino, dove avevamo ascoltato un concerto jazz, c'era un nebbione terribile, e Ottavio Coffano, che era alla guida, a un certo punto si è messo a canticchiare quella canzo¬ ne che fa: Solo me ne vo per la città». «Ferma! Fermai», ha urlato Pao¬ lo. Coffano ha inchiodato, pensan¬ do che stavano per investire qual¬ cuno. Paolo è sceso; «Tomo a piedi. Questa canzone porta sfiga». Lili Marlene è in grado di farlo scappa¬ re da qualunque ambiente e «Il valzer delle candele» per Paolo, e non solo per lui, è una stilettata al cuore. Anche neha sera di Capodan¬ no arriverà il momento dei rebus. Paolo è abbonato alla rivista Pe¬ nombra, scambia complicati rebus con Roberto Benigni, Umberto Eco e Stefano Bartezzaghi. Un avvoca¬ to di Bra, amico suo, ne propone uno toccandosi il polpaccio sinistro e dicendo; «Due e sei». Paolo pron¬ to dà la soluzione: «La piovra». Io devo ancora capirlo adesso. Paolo Conte O invitato Canrnlo Bene m^ a casa mia, per trascorre¬ re insieme la sera di Capo¬ danno. Gli ho domandato cosa gradisse per cena e lui ha risposto: «Mi basta un filetto ai ferri». L'ho comprato da un macel¬ laio conosciuto come «l'orefice» per via dei prezzi che pratica anche se so già che Carmelo ne lascerà metà nel piatto e per distrazione ci spegnerà sopra la sigaretta. Ho tirato fuori dall'infer¬ notto della mia cantina due botti- ghe di Barolo di Bartolo Mascarel- lo che tenevo in serbo per le grandi occasioni anche se so che, terminate quelle, Carmelo si fion¬ derà in cucina accontentandosi di quello che riesce a trovare. Ho invitato Carmelo per rievocare con lui un'esperienza lontana nel tempo, un «Otello» televisivo regi¬ strato' nel 1979 e mai andato in onda perla difficoltà di montarlo. La notizia è che forse l'anno prossimo riuschemo a vederlo. Sarà un evento memorabile per¬ ché il lavoro di Carmelo Bene è la registrazione della dimostrazione per assurdo dell'impossibilità di fare r«Otello», è il graffito, impre¬ ciso, infedele, improprio, dell'irre¬ sistibile attrazione che Carmelo prova per la degradazione, il disfa¬ cimento, la corru¬ zione dei corpi, del¬ la luce, delle voci, della memoria, il dolcissimo avvita¬ mento nel nero, il lento sprofondare nella palude sulla quale galleggia il letto disfatto di Otello e Desdemo- na. Per approdare a ijuesta impossibi¬ lità, Carmelo si è sottoposto a uno sforzo titanico, a fatiche disuma¬ ne. Non per niente il titanismo è una delle stimmate dell'eroe ro¬ mantico che è il modello nella vita e nell'arte di Bene. Obbedendo alla sua irresistibile vocazione mortuaria, Carmelo ha violentato, calpestato e distrutto tutti gli standard di una trasmissione te e-. visiva. Le telecamere a colori erano state completamente desaturate e il colore che ne residuava era soltanto un brandello di memoria del colore originario. Con un effet¬ to struggente, di quadro preraffa¬ ellita immerso in una palude di nero senza fine. La preparazione di una sequenza era lunghissima: ore di prove sulle luci, sulle gelati¬ ne colorate da mettere davanti ai riflettori suha composizione della scena, con il letto di Otello che galleggia su uno stagno nero coper¬ to di specchi (e si sa che gli specchi sono la maledizione per chi deve ihuminare e riprendere una sce¬ na), con stoffe, fiori di seta, cusci¬ ni, fazzoletti ricamati, microfoni nascosti. Si registra finalmente; i poveri attori mandati nella fossa dei leo¬ ni senza una sola parola di spiega¬ zione; che s'arrangino, una volta non li seppellivano nemmeno nel¬ la terra consacrata. Risultato, la prima registrazione era un disa¬ stro. Carmelo, che è di una genti¬ lezza commovente con i collabora¬ tori tecnici, si abbandonava a scene selvagge, stupende d'ha e di collera. Quello era un altro «Otel¬ lo», peccato non averlo registrato. Dopo infiniti tentativi, Carmelo raggiungeva il risultato voluto, si girava verso di me dicendo; «Bello vero?». E io: «Stupendo. Sembra la sequenza di un film di Bernardo Bertolucci». E lui, mormorando trai denti; «BastardoI». RUTTE¬ RÒ e Lu- cenlini: nel 2002, fra i vapori di un carrello di bolhti misti, festeggere¬ mo trent'anni dal¬ l'uscita de «La don¬ na della domenica». Niente male per un libro d'intrattenimento, nato per essere cotto e mangiato. Sempre nel 2002 vedrà la luce la copia restaurata del film di Luigi Comen- cini che sarà proiettato in prima visione all'aeroporto di Caselle, in un hangar dell'Alenia, che ha finan¬ ziato h restauro. Ricordate? Il romanzo nacque come reazione dei due autori a un . diktat del «Gruppo '63» che procla¬ mava: oggi non è più possibile né scrivere né tantomeno leggere un romanzo che inizi con la frase «la marchesa uscì alle cinque». Gh ispettori del Gruppo '63 venivano ogni sera, con la scusa di darmi la buona notte, a rimboccarmi le coperte e a controllare che stessi leggendo uno dei loro libri. I più severi erano Nanni Balestrim e Sebastiano Vassalli. Io mi facevo sorprendere con «Capriccio itaha¬ no» di Edoardo Sanguineti. Loro uscivano, spegnevano la luce e io, con la pila e sotto le coperte mi davo ahe mie vere letture che incominciavano con: «C'era in Ve¬ stfalia, nel castello del signor baro¬ ne», «Lady Windermere dava l'ulti¬ mo ricevimento di quaresima», o più semplicemente: «Chiamatemi Ismaele». Un altro beneficio a me derivò dal fatto che, grazie a quel libro, nel cinema italiano venne di moda Torino; i produttori voleva¬ no a tutti i costi e subito storie ambientate in quella città; non era sufficiente cancellare Roma e scri¬ vere al suo posto Torino, bisogna¬ va cambiare anche il nome delle strade, delle piazze e dei locali; per mia fortuna, ero l'unico torinese nel gmppo di aspi¬ ranti sceneggiato¬ ri. So già cosa mi risponderanno F&L quando elen¬ cherò le loro bene¬ merenze. Con il lo¬ ro inimitabile un- derstatement, mi¬ nimizzeranno, di¬ ranno che non han¬ no fatto altro che tradurre corretta¬ mente un vecchio proverbio pie¬ montese, «la cattiva lavandaia non trova mai la buona pietra» e non «la pera» come aveva equivocato un impiegato del catasto di origini meridionali. Cerco di farli parlare del loro lavoro alla casa editrice Einaudi e loro; «Ci facevano partecipare alle riunioni del mercoledì perché era¬ vamo stati in Inghilterra e sapeva¬ mo servire il tè». Insisto: «Con Le meraviglie del possibile avete sdo¬ ganato Ta fantascienza in Italia». E loro: «Sergio Solmi ci aveva segna¬ lato questa novità, gli impiegati deh'Usis che tomavano in America avevano venduto i loro libri a una bancarella di piazza San Carlo. Fragando h in mezzo abbiamo trovato qualche libretto interessan¬ te. Tutto qui». Carlo Muscetta, uno dei testimoni delle origini dell'Ei¬ naudi, uh giomo mi raccontò la storia tragicomica di una traduzio¬ ne della Bibbia proposta da un millantatore, che si rivelò una «sola». E' vero che fu Franco Lucentini a svelarlo? «Sì», mi risponde, «su una bancarella di libri usati, a Parigi, avevo trovato per pochi soldi una grammatica di ebraico e in cinque settimane l'ho impara¬ to». Commcio a pensare che le bancarelle siano, per F&L, quello che per i testimoni di Geova sono i citofoni. «E' vero, insisto con Lu¬ centini, che lei imparò l'olandese per controllare la traduzione de II diario di Anna Frank?». «Si ricorda quella bancarella davanti a Porta Susa?». «Ho capito. E' vero che lei conosce 17 lingue? Come ha fat¬ to?». «Non è un'impresa diffiche, basta imparare le prime dieci poi il resto viene da sé». «Buon anno, gloriosa ditta, e scusatemi se lo so dire solo in italiano e in piemonte¬ se». BRUNO GAMBAROTTA RICORDA: A LOSANNA CON SIMENON DIVORANDO LA «MONT BLANC» DELLA VEDOVA COUDERC; DUE UOVA SODE, DIVISE PER OHO A SUON DI JAZZ DA PAOLO CONTE; UN DESCO PIEMONTESE PREPARATO PER CARMELO BENE, RIEVOCANDO IL SUO «OTELLO»; UN BOLLITO MISTO CON F&L PER FESTEGGIARE «LA DONNA DELLA DOMENICA» CHE NEL 2002 COMPIRA' TRENTANNI Georges Simenon FILETTO e BAROLO. ttro cen apodanrtó Il disegno è di Dariush Sotto: Bruno Gambarotta RUTTE¬ RÒ e Lu- cenlininel 2002fra i vapori di un carrello di bolhtmisti, festeggeremo trent'anni dall'uscita de «La donna della domenica»Niente male per un libro d'intrattenimento, nato peessere cotto e mangiato. Sempre nel 2002 vedrà la luce la copia restaurata del film di Luigi Comencini che sarà proiettato in prima visione all'aeroporto di Caselle, in Paolo Conte