Riapre l'ambasciata I nostri para a Kabul

Riapre l'ambasciata I nostri para a Kabul GIÀ' ISSATO IL TRICOLORE CHE AVVIA IL RITORNO ALLA NORMALITÀ' Riapre l'ambasciata I nostri para a Kabul .'incaricato d'affari italiano arriva da Roma sull'aereo che porta il primo drappello di soldati e carabinieri. Oggi è atteso l'arrivo di Sgarbi che si occuperà della ricostruzione dei Buddha di Bamiyan reportage Pierangelo Sapegno inviato a KABUL DALLO spioncino del cancel¬ lo, si affaccia tutte le volte Safter Ali, con il suo metro e 90, gli occhi a mandorla e il sorriso da coniglio. Però, que¬ sta volta non dice che non c'è nessuno nel suo stentato ingle¬ se, «it's closed», senza schiude¬ re nemmeno la porta. Dietro il cancello, c'è un viale con un misero steccato di legno e pini ad ombrello sparsi lungo le aiuole di terra. Per scorgere la bandiera, bisogna entrare e allungare lo sguardo a sinistra. L'hanno issata e sventola appe¬ na. Ambasciata d'Italia, a Ka¬ bul. Qui, subito dopo la porta, c'è la guardiola di Safter, una stufa elettrica, tre sedie trabal¬ lanti, una branda. A sinistra, un grosso edificio con i vetri rotti e dappertutto sulle spesse mura di cemento i segni delle raffiche di kalashnikov e delle schegge di bomba che tappezza¬ no le pareti. Safter dice che c'è un italia¬ no, finalmente. «E' fuori per le compere». Okay. Possiamo aspettare? Lui vorrebbe dire di no, e un po' lo dice. Allora facciamo i cattivi: questa è casa nostra, amico. Apre oggi, ufficialmente, l'ambasciata di Kabul, quando Domenico Gior¬ gi, l'incaricato d'affari inviato dal ministro Ruggiero, arrive¬ rà da Roma sull'Hercules CI30 che porterà anche il primo, piccolissimo drappello dì mili¬ tari italiani: sei più sei carabi¬ nieri del Tuscania. Faranno parte della Forza di pace multi¬ nazionale Onu: il loro compito è, tra l'altro, quello di esamina¬ re l'area assegnata, di prendere contatti operativi più stretti con il comando dell'Isaf e di predisporre la sistemazione lo¬ gistica del contingente. E' Casa Italia che ritorna. Safter lavora qui da 28 anni; da quando ne aveva praticamente la metà di quelli che ha adesso: 55. Ha visto un po' di cose, in questo Paese della guerra, ha visto un prete ferito dai . mujaheddin prima ancora che . arrivassero i taleban, portato via con il braccio e la gamba spappolati, ha visto l'ultimo sacerdote aprire la cappella, laggiù, in fondo al viale, don Angelo Perinzotti, prima che se ne andasse via, e ha impara¬ to a proteggere le tre suorine che lavorano in ospedale e che vengono ogni tanto qui a prega¬ re. Ha imparato a difenderle dai taleban, l'ultima volta sei mesi fa, quando bussarono al cancello, «con le loro barbe lunghe e i turbanti», e lui fece di tutto per non lasciarli passa¬ re ripetendo che non c'erano: così dette tempo a loro di nascondersi. Dev'essere stata una di quelle volte che hanno sparato a mitragliate contro la casa dell'Ambasciata. Poi, Saf¬ ter ha continuato a protegger¬ le, e lo fa ancora adesso dai giornalisti, che continuano a venire qui ogni cinque minuti per cercarle: il Daily Tele- graph, Paris Match, un altro reporter americano. Lui dice a tutti che non ci sono, che saranno in ospedale a lavorare. Lo dice anche a noi, che ci riscaldiamo le mani sulla stu¬ fetta, dentro la guardiola: «Con i taleban hanno avuto molta paura, hanno dovuto vivere nascoste, nascondere anche le croci». Dove? «Qui non poteva¬ no più». Erano finite in un appartamento, nelle case rus¬ se, dei palazzi di cinque piani tutti a raggerà, costruiti quan¬ do Kabul era occupata dai sovietici. Safter è musulmano, e l'Ita¬ lia che conosce è solo questa: allora, gh chiediamo, se è una bella Italia. Ride: «Sì». E' quasi mezzogiorno, e la nostra pa¬ zienza è ormai finita, quando la porta si apre e appare un signore con un bel magUone colorato: piacere. Serafino Pia¬ cere. E' arrivato ieri sera da Islamabad per preparare l'am¬ basciata che apre oggi. Ha dormito una notte al freddo, e adesso è stato in giro a cercare brande e stufe: si ricomincia così. Per la prima cosa, si va giù alla cappella. Sedute al sole, vicino a ima tettoia, ci sono le tre suore: Chantal, francese, da 40 anni in Afghani¬ stan, Miriam, svizzera di San Gallo, da 30 a Kabul, e Catheri¬ ne, giapponese qui da 20 anni. La cappella è stata costruita nel 1962. E' quasi vuota: delle panche, e un altare. I talebani e i ladri l'hanno depredata di tutto: croci, paramenti, qua¬ dri, ori, persino le candele. Le tre stanze della biblioteca, in¬ vece, sono intatte. Un quadro della città di Recanati, uno stemma della Ferrari, un gran¬ de armadio a due ante. I milita¬ ri si sistemeranno a dormire qui: ci sono le stufette che funzionano. Fuori, nel cortile, le suore preparano una specie di frittata afghana e fanno bollire il tè con una strana macchinetta che si riscalda al sole. Fino al 1994 c'era un prete che gestiva la cappella. Padre Moretti fu ferito e dopo di lui venne ancora don Perinzotti. Poi più nessuno. La sua auto è ancora lì, sotto la tettoia, una vecchia Ford Firemont color amaranto, con un buco nel radiatore. Un colpo di kalash¬ nikov. Accanto, una Land Ro¬ ver azzurra, anche quella or¬ mai inservibile. Il Vaticano ha deciso che dopo otto anni ri¬ manderà un cappellano: il pri¬ mo passo, sembra, per aprire addirittura una sede a Kabul. Oggi, c'è rimasto il vecchio autista del Vaticano, Hassad Abdullah, un signore con la barba bianca, che ha portato in giro Piacere a far le compere (40 coperte a 12 mila lue l'una, le stufe e i materassi) e che ricorda quella volta che padre Moretti sanguinava tutto, il braccio sinistro a pezzi e anche la gamba. Oggi arriva pure il ministro dei Beni Culturali Vit¬ torio Sgarbi, che fra le altre cose si sta impegnando a far ricostruire i Buddha di Bam- yan. Lo segue una delegazione di undici persone. Si va in ambasciata. Un grande pianterreno, tutto de¬ serto. Un pianoforte, sotto le scale. Non è l'unica cosa che hanno risparmiato i ladri e i taleban: l'ultima volta che ven¬ nero qui, poco prima della caduta di Kabul, cercarono di portare via anche l'argenteria che è chiusa dentro una cassa¬ forte con tre lucchetti. Riusci¬ rono a spezzame due. Per mira¬ colo, rinunciarono al terzo: così, oggi l'ambasciata riparte dall'argenteria. Nei piani so¬ pra, ci sono gh uffici e le camere da letto, che sono cin¬ que. In un solo bagno c'è l'acqua calda. Fuori, due pisci¬ ne senz'acqua, immerse in un giardino incolto, fra i pini ma¬ rittimi. Di nuovo, vetri rotti e i fori dei kalashnikov. Per andar via, si passa davanti alla ban¬ diera: il vento la accarezza. Le tre suore stanno mangian¬ do quella specie di frittata afghana, un pezzo di pane e dei mandarini. Hanno i loro vestiti blu, la croce che pende al collo, e un velo azzurro. Durante il regime dei taleban, dovevano coprirsi tutte con abiti musul¬ mani. Il coraggio lo trovavano per andare a curare i malati all'ospedale pubblico. Lì erano infermiere e le lasciavano sta¬ re: è quando uscivano che dovevano nascondersi e scap¬ pare dalla polizia religiosa. C'è un ritaglio di una rivista fran¬ cese che parla di loro e vola via: «Le sorelle coraggio». Ades¬ so come va? «Adesso è niente». Una legge un libro, una adden¬ ta il pane e l'altra sorride nel sole. L'edificio crivellato dalle raffiche di mitra e dalle schegge delle bombe durante il regime è stato depredato di tutto. Lasciati soltanto un pianoforte e le posate In Casa Italia da 28 anni, il custode Safter Ali ha visto l'ultimo prete andarsene e ha protetto le tre suore dell'ospedale quando i taleban sono venuti a cercarle