SAID Anche l'America un po' fondamentalista

SAID Anche l'America un po' fondamentalista LOSCRITTOftE^ VOCE DEI PALESTINESI MODERATI SAID Anche l'America un po' fondamentalista colloquio Joan Smith LONDRA POCHI accademici sono in grado di attirare il genere di folla che va ai concerti rock. Edward Said, professore di let¬ teratura inglese e comparata alla Columbia University, è uno di quelli. A Londra la settimana scorsa, quando l'ho intervistato all'Apollo Theatre di Shafteèbu- ry Avenue, ha costretto gli orga¬ nizzatori a spalancare le porte e fare entrare la folla, che avesse o no il biglietto. A marzo, quan¬ do aveva parlato al Soas, la sala era stata presa d'assalto. Said non è completamente a proprio agio con quella celebri¬ tà, sebbene vi sia abituato. Sa di suscitare tremende passioni fra i suoi lettori, molti dei quali lo considerano un portavoce dei palestinesi. Ma attira anche un pubblico più ampio, che ammi¬ ra testi innovativi come «Orien¬ talismo» e «Cultura e Imperiali¬ smo» e che lo considera paradig¬ ma dell'intellettuale impegna¬ to. Si ammirano, in lui, la serie¬ tà e la lucidità della sua intelli¬ genza, entrambi evidenti nella raccolta di saggi «Riflessioni sull'esilio». E' a proprio agio quando scrive di Glenn Gould - Said è pianista a livello di concertista - come quando scri¬ ve dei film di Tarzan di Johnny Weissmuller. Ho suggerito, mentre parla¬ vamo sul palcoscenico, che il suo attaccamento giovanile ai film di Tarzan offre uno spacca¬ to deh'ambiente in cui è cresciu¬ to. Said è nato in Palestina nel 1935 con un passaporto ameri¬ cano, trascorreva la maggior parte del tempo in Egitto, fre¬ quentava scuole coloniaJi bri¬ tanniche, andava per le vacan¬ ze in Libano e vedeva film di Hollywood sull'Africa che era¬ no stati girati in Florida. Final¬ mente, a 16 anni, era stato mandato prima a scuola e poi all'università negli Usa, dove si è stabilito. E' poco sorprendente che leg¬ ga fra le righe del canone lette¬ rario, pur senza ignorare i gran¬ di della letteratura inglese - è particolarmente legato a scritto¬ ri bianchi scomparsi come Jose¬ ph Conrad - che però coUega alle realtà politiche del loro tempo. E' anche inevitabile che non sia compreso dai critici convenzionah. Anche così, tuttavia, è diffici¬ le comprendere il grado di deni¬ grazione che a quest'uomo gen¬ tile, cordiale, piuttosto ansioso riceve dai suoi nemici. Lo han¬ no chiamato «il professore del terrore» a causa del suo soste¬ gno per i palestinesi; il suo ufficio di New Vork è stato incendiato e vandalizzato; è persino stato accusato - un'as¬ serzione in gran parte messa a tacere due anni fa nel suo libro di memorie «Sempre nel posto sbagliato» - di avere falsificato il suo retroterra per renderlo più palestinese di (pianto fosse. E' di umore scuro quando ci incontriamo di nuovo, un paio di giorni dopo l'intervista in pubblico: in parte per la sua salute - ha la leucemia - e in parte per gli avvenimenti in Medio Oriente. Gli israeliani hanno bombardato la base di Arafat dopo una serie di attac¬ chi kamikaze e le speranze di uno Stato palestinese sono an¬ date nuovamente deluse. «In realtà non ho alcun potere», dice riferendosi alla frustrazio¬ ne dell'intellettuale in un mon¬ do «dominato da persone che danno consigh ai governi». Quel¬ lo che scrive sulla Palestina, dice, «ha il tono di una specie di testimonianza di fronte ad avve¬ nimenti che altrimenti si perde¬ rebbero». Si vede come fornitore di «risorse di speranza», per usare un'espressione di Raymond Wil¬ liams, ma lo sforzo è sempre più faticoso. «Lo faccio col sen¬ so di uno che ha un investimen¬ to personale nella vicenda. Non è una cosa gratuita e non mi piace. Ho 66 anni e non sto bene». Ha l'aspetto stanco, par¬ la in un modo che rivela una combinazione di disperazione politica e personale. Tali senti¬ menti sono talmente profondi che egli intende trascorrere più tempo lontano dagli Usa, com¬ preso un trimestre all'universi¬ tà di Cambridge l'anno prossi¬ mo. «E' un grande Paese», dice scegliendo con cura le parole: «New York è la più interessante città del mondo». Ma è «turba¬ to» dall'«atmosfera ideologica» dopo 1' 11 settembre. Vi indivi¬ dua «trionfalismo, il senso che siamo il Paese inevitabile. Sono così legato alle cause perdute che trovo difficile scendere in quell'atmosfera. Sento vera¬ mente di appartenere al vec¬ chio mondo, non a quello nuovo e aggressivo. L'Europa mi atti¬ ra, e il Medio Oriente». Parla di una vampata di raz¬ zismo negli Usa. «Non conosco un singolo arabo o palestinese che non la provi. La maggior parte dei miei amici indiani o pakistani, iraniani, nordafrica¬ ni, tutti ci sentiamo presi di mira. E' uno scrutinio di tipo odioso. Non credo che sia soltan¬ to in funzione dell' 11 settem¬ bre. E' lì da molto tempo. C'è un'intera batteria di esperti di terzo o quart'ordine dell'Islam che lo odiano. Perché trascorre¬ re tanto tempo a studiare una religione e un popolo così com¬ plessi per poi ridurre tuttofa , violenza e rabbia? Ma'quésto è quello che vogliono sentire i media». Said è forse il critico più sicuro della tesi dello «scontro di civiltà» proposta da Samuel Huntington, secondo cui la Guerra Fredda è stata sostituita da una lotta fra l'Occidente civile e l'Est islamico. E' severo sul modo in cui quella teoria riduce le culture a una massa monolitica. «Che dire del fonda¬ mentalismo occidentale?», ha esclamato quando ho sollevato l'argomento all'intervista in pubbhco. Più tardi avrebbe pre¬ cisato: «Non mi fido deUa politi¬ ca religiosa. Se vuoi creare la pohtica monoteista, non ti limi¬ ti all'Islam. La destra fonda¬ mentalista cristiana è la più importante forza nella politica americana al di fuori del com¬ plesso industriale militare». Taluni critici lo hanno accu¬ sato di essere un apologeta dell'Islam, sebbene abbia a sua volta sfidato il fondamentali¬ smo sul suo terreno. «Sono stato il primo arabo a difendere Salman Rushdie, al Cairo, nel 1989», ricorda: «Sono una delle poche persone che critica quelli di Hamas». Afferma anche che i fondamentahsti sono una mino¬ ranza: «La gente dimentica che la maggior parte del mondo non è così. Si leggono sui giornali certi articoli sul ruolo dominan¬ te di Hamas, ma la maggior parte dei palestinesi non sono legati né a quella formazione né ad Arafat». Said è un severo critico di Arafat - non erano della stessa opinione a proposi¬ to degli accordi di Oslo - e Arafat ha cercato di mettere al bando i libri di Said. Sebbene la famiglia di Said fosse anglicana, lui è laico con¬ vinto. «Ho avuto un'educazione molto religiosa - dice - ma me ne sento ben ripulito. Nutro ancora una grande simpatia per la Bibbia di re Giacomo e per il Book of Common Prayer (il libro di preghiere che contiene la liturgia ufficiale della Chiesa anglicana; ndt). Ma in sostanza non significa nulla per me. Non ricordo di essere mai stato vera¬ mente un credente». Ha un simile atteggiamento per il Co¬ rano: «Sotto molti aspetti è un magnifico libro. Ma non è certo una guida per i perplessi». Quan¬ do gli dico che Tony Blair affer¬ ma di leggerlo, Said esplode in una rara risata: «Per forza che è così confuso!» Il suo non credere in un'altra vita è qualcosa che gh diede da pensare dieci anni fa, quando scoprì di avere quella che chia¬ ma «una brutta e refrattaria forma» di leucemia: «Ho dovuto affrontare quel problema quan¬ do mi sono ammalato. Quasi subito ho scoperto di non avere paura della morte. L'ho affron¬ tata abbastanza nell'ultimo an¬ no. Due volte, a gennaio, sono stato ricoverato per una reazio¬ ne alle cure. Sono stato molto vicino alla morte. Le cose più importanti per me erano essere lucido ed essere cosciente: ho sempre rifiutato i sedativi du¬ rante le cure». Di questi giorni il suo intelletto attivo resiste persino al sonno, che descrive nei suoi saggi autobiografici come una forma di morte. E' in attesa di una cura sperimentale, che potrebbe es¬ sere disponibile alla fine del mese. Quando gh domando dei suoi progetti attuali, sciorina una lista completa: tre libri, fra i quali uno basato sulle conver¬ sazioni con il suo grande amico Daniel Barenboim. «Il mio libro più importante - dice - è sullo stile finale, sull'ultima fase di vari autori: Beethoven, Ibsen, Lampedusa». Ha anche comin¬ ciato a scrivere un romanzo. Tale ritmo di lavoro sarebbe problematico anche per una persona in buona salute. Ma poi ci sono gh imprevisti: «Conti¬ nuano a chiedermi di scrivere articoli sulla guerra o altre cose», si lamenta. Said può avere riconosciuto quello che descrive in uno dei suoi saggi come «l'inerente inconciliabili¬ tà fra credo intellettuale e fedel¬ tà appassionata a tribù, setta e Paese», ma il resto del mondo no. Per i suoi ammiratori e i suoi critici questo gradevole, brillante e vulnerabile uomo è ancora il simbolo di una causa e di un popolo. Copyright «The Independeiit» ^ / ^tHtw'^ '\m^m tt nSr^^m . :*:.- 'lf*'^,:'[\'.;:i,''.' '■',.