«Arafat può ancora fermare il terrorismo» La speranza di Peres

«Arafat può ancora fermare il terrorismo» La speranza di Peres INTERVISTA AL PREMIO NOBEL .,,', OGGI A BRUXELLES E POI IN ITALIA «Arafat può ancora fermare il terrorismo» La speranza di Peres tiilS'Z^T-r-r-^u asm ..;::.^ I ministro degli Esteri israeliano: siamo a un punto moto basso «Un leader deve anche saper rischiare per il bene del suo popolo» intervista Fiamma Nirenstéin GERUSALEMME EPPURE, dice Peres con un filo di voce, Arafat può ancora fer¬ mare il terrorismo. Mai Shimon Peres ha avuto un'espressione tanto affaticata. Il suo tono, sempre così basso, adesso è quasi impercettibi¬ le. Peres fa appello in questi giorni a tutta la sua forza per tenere aperta la porta alla trattativa, fra lo scorag¬ giamento e anche la disperazione che ormai ha preso il suo popolo. Il ministro degli Esteri d'Israele è colui che ha sempre insistito perché Arafat restasse per Israele un part¬ ner nel processo di pace, anche quando ha rifiutato il cammino inaugurato da lui stesso, da Yitzhak Rabin e da Peres, quello degli accor¬ di di Oslo che hanno valso ai tre il premio Nobel. Adesso, con i giorni dei furiosi attacchi dei terroristi suicidi e con le risposte militari di Israele dirette soprattutto contro le roccaforti di Arafat, sia la sua ispirazione di fondo, la pace, che la sua politica, il ritomo al tavolo delle trattative, attraversano una profonda crisi. L'Intifada ha ormai invaso l'orizzon¬ te intero del rapporto fra israeliani e palestinesi, Arafat potrebbe esse¬ re un leader ormai delegittimato, la liftea di Sharon che è sempre stata quella di considerare il Raìss il responsabile primo degli attacchi terroristici e quindi di escludere Ognii trattativa1 fino all'interruzione della violenza, è divenuta più popo¬ lare. Troviamo tuttavia Peres deci¬ so come sempre, in partenza per un viaggio europeo che lo porta prima a Bruxelles e poi da noi, in Italia; dove avrà incontri con le massime autorità dello Stato. E i colloqui previsti certo avranno un punto di partenza simile a quanto il ministro degli Esteri israeliano ha racconta¬ to ieri sera a «La Stampa» in questa intervista esclusiva. Signor Ministro, come si sente personalmente? La sua politi¬ ca ha subito un colpo dal terro¬ rismo, non sente di aver spre¬ cato il suo tempo? «Sento soltanto che devo sforzarmi di più, che devo duplicare il mio lavoro. Che non si deve lasciare che la follia divenga delirio, che la ferocia impazzi». A tanto tempo dall'accordo di Oslo, non si vede che sofferen¬ za, morti, sangue, feriti. Come si concilia questo con la sua visione di un futuro migliore, di un accordo con i palestine¬ si? «Siamo a un punto molto basso, le emozioni dilagano e coprono la ragionevolezza. Le ragioni emotive sono talmente più complesse di quelle territoriali, o di quelle logi¬ che. I due popoli sono arrabbiati l'uno con l'altro, ambedue soffrono terribilmente». E' quella che viene chiamata la spirale di violenza. «Ma una delle due parti, i palestine¬ si, infligge all'altra continui attac¬ chi terroristici. E' qui che c'è un elemento di differenza e di difficol¬ tà grandissime: perché la leader¬ ship palestinese in questo modo perde credibilità agli occhi america¬ ni, agli occhi degli europei, e anche agli occhi israeliani. L'interlocutore si fa poco credibile». Questo indebolisce la possibili¬ tà di fare la pace con qualcuno credibile. Anche ai suoi occhi, visto che è lei il fautore princi¬ pale e strenuo dell'idea che Arafat sia il partner per la pace? «Ai miei occhi come a quelli di chiunque. E' lo stesso Arafat che fece il grande errore di rifiutare un buon accordo a Camp David. La libertà è anche il diritto di sbaglia¬ re, ma c'è poi un prezzo per gli errori, e Arafat paga in credibilità». E quindi? «In questo momento la grande do¬ manda è se Arafat sia un leader a cui si possano affidare risposte che poi risultino vere, risultino affidabi- li, una parola data una volta per sempre a nome dei palestinesi». Lei non lo crede più? «Mi domando come tutti se esista ancora quell'autorità unica cui è indispensabile fare capo. Mi spiego: Israele, che è una democrazia, ha molte voci diverse, persino all'inter¬ no del governo, che è un governo di coalizione. Ma quando l'esercito deve sparare, è un esercito che risponde a un ordine, e a uno solo. Noi possiamo avere quattro voci, ma l'esercito obbedisce agli ordini. Un cessate il fuoco è un cessate il fuoco. Là il dubbio è che Arafat dica "cessate il fuoco" o "arrestate i terro¬ risti", ma poi il fuoco è quello di quattro armate diverse. Se hai quat¬ tro eserciti, non hai con te un Paese. Insomma, i palestinesi hanno crea¬ to una situazione di caos, e per fare un accordo è indispensabile invece che tutti quanti rispondano all'auto¬ rità unica che si impegna a cessare il fuoco: lo dico innanzitutto non per noi ma per i palestinesi. Noi possiamo avere tante voci, d'accor¬ do, ma le voci non uccidono. Le armi impazzite, invece sì». Ma Arafat sta facendo del suo meglio? Fa quello che dice, ferma i terroristi come la ha promesso personalmente? «Bisogna distinguere fra il dire e il fare. Se guardiamo ai risultati, non se ne vedono di buoni». Si riferisce in particolare all' ennesimo attentato, quello di Haifa? «A quello e all'incessante serie di cui soffriamo ogni giorno, ogni ora». Arafat seguita a essere at¬ taccato a casa sua. Ma ha chiesto un po' di tempo per punire i terroristi. «Magari ci fosse il tempo: ma è un bene di cui non disponiamo né per noi né per gli altri. Il tempo in questo caso porta solo tragedie, se non si fa qualcosa in fretta. Ogni ora, altri attentati. Arafat deve fare presto». Ma tutti vedono Arafat oggi come una debole figura fra Hamas e Israele. Secondo lei, Arafat è in grado di fermare il terrorismo, o non controlla più niente? «Io credo di sì: Arafat è in grado, prima di tutto, di fare di più di quello che sta facendo. Se vedremo che fa sul serio, che fa davvero tutto ciò che può, allora lo annunceremo al mondo». Intanto vi sembra giusto segui¬ tare ad attaccarlo? Arafat ha già fermato alcune decine di persone. «Si tratta di attacchi molto limitati, portati agli edifici e non alla gente. Sono avvertimenti, non punizioni». Arafat è comunque in difficol¬ tà personali che secondo molti commentatori giungono fino al pericolp dì vita. Insomma, è debole o forte? «Il criterio per cui si misura la forza di un leader sta nella sua disponibili¬ tà a rischiare per il bene del suo popolo. Non si può essere un leader de luxe che conosce solo gli onori e l'approvazione. Bisogna scendere al livello della realtà, gestire situazioni complicate, alle volte disgraziate». E' vero che fra i terroristi suicidi ci sono uomini del Fa¬ tali e dei tanzim, ovvero prove¬ nienti dalle fila di Arafat? «Sì, ce ne sono alcuni». Ma se vuole Arafat può ferma¬ re Hamas? O Hamas ha una forza tale per cui Arafat non può contrastarlo? «Si, Arafat ha la forza, le armi per battere i nemici intemi. La sua polizia conta 60 mila uomini: la metà, forse, basterebbe». Come si colloca lo scontro at¬ tuale nel conflitto mondiale in corso? Gli americani intende¬ vano tenere lontano gli echi del conflitto israelo-palestine- se: non è stato possibile. Qual è il nesso fra il Medio Oriente e lo scontro generale con l'estre¬ mismo islamico? «C'è un tragico nesso neHerrorismo suicida. Ouattro persone a New York causano un danno che anni di guerriglia non provocano neppure lontanamente. Lo stesso in Israele: il terrorismo suicida è un disastro ideologico e politico che trascende i limiti del conflitto territoriale». In che senso «trascende»? Ha un carattere di lotta fra Islam e Occidente? «Più di questo: io vedo nel terrore globale l'altra faccia della medaglia della globalizzazione. Se compri i computer e sai usare l'intemet, questo non fa di te un membro della comunità mondiale. Godere i benefì¬ ci dell'economia globale non è un fatto tecnico: compri la scienza, ma non puoi comprarne l'uso sensato, la trasparenza; compri gli strumen¬ ti della ricerca, ma non ti serve a niente se non è libera, essa ha bisogno di una società libera per portare benefici alla popolazione. La modemità, l'high-tech hanno indelebilmente bisogno di aria puli¬ ta, trasparente; se scegli di avere una società autoritaria, in cui le donne non hanno nessun potere, in cui terrorizzi la tua propria gente, in cui hai bisogno appunto di gente che si va a uccidere per ottenere i tuoi scopi, la modemità non può entrare, non può entrare la meravi¬ glia della ricerca e delle idee, sei destinato a tenere il tuo popolo in condizioni disastrose, ad avere un ambiente corrotto e centralizzato». E' così che nella società di Bin Laden le prime vittime sono le donne. E nella società di Arafat? «Sei palestinesi vogliono apparte¬ nere a un nuovo mondo, se voglio¬ no idealmente essere parte inte¬ grante di una coalizione che va ben al di là della guerra in corso, devono cambiare sistema di valo¬ ri, appartenere al nuovo mondo, abbandonare il terrorismo, l'op¬ pressione. E' così simbolico che le prime vincitrici nella guerra in Afghanistan siano le donne: se , vuoi far finire il terrorismo, devi uccidere la discriminazione». I palestinesi dicono che la sofferenza li tiene inchioda¬ ti, che la miseria genera il terrorismo, e che Israele è il maggior accusato. «E' proprio per i palestinesi, perché la nostra guerra è contro i terroristi e non contro i palestinesi, che il nostro impegno è tornare a parlare di pace tenendo conto di ogni esigen¬ za. Certo, la violenza deve cessare: e poi finalmente, come abbiamo con¬ cordato fra tutte le parti, potremo dare il via all'applicazione dell'accor¬ do Mitchell per un ritomo a colloqui di pace. Desidero fino in fondo, una volta che sia bandita la violenza, vedere i palestinesi accedere a un mondo di libertà e di benessere». Ma l'elemento estremista isla¬ mico, Hamas, è oggi fortissimo. Come può pensare che sola in Medio Oriente l'Autonomia pa¬ lestinese oggi decida per la democrazia e la trasparenza? «Il Pakistan, la Turchia, stanno facendo ciascuno a suo modo gran¬ di sforzi. Non solo gli occidentali possono essere parte di una grande trasformazione. America, Giappo¬ ne, Cina, India, Sud America sono un nuovo grande allineamento che fa parte della parte luminosa della luna. Poi, c'è la parte oscura». L'odio trascina dalla parte scura. «L'Europa per decenni è vissuta nell'oscurità di guerre e persecuzio¬ ni orribili. Eppure nel '45 tutte? è cambiato. Io penso tuttora che i palestinesi possano appartenere, cento per cento, al mondo luminoso e modemo in cui io credo». In questo non potrebbe aiuta¬ re un cambio di leadership palestinese? Tutti hanno pau¬ ra dell'avvento di un leader più estremista, ma ci sono tanti leader palestinesi, e co¬ munque Hamas ha molta for¬ za anche con Arafat al potere. «Il problema della leadership pale¬ stinese è di quelli in cui Israele non deve mettere bocca. Guai a impor¬ re, suggerire, premere». Lei sta partendo per Bruxelles e poi per l'Italia. Nel Belgio si incontra con un Paese che ha messo sotto accusa il vostro primo ministro per Sahra e Chatila. Che cosa ne pensa? «Che un Paese che ha la fortuna di essere in pace non deve farsi giudi¬ ce di un Paese che ha la terribile esperienza della guerra». «Occorre fare capo a un'autorità unica Israele ha molte voci diverse, anche all'interno del governo, ma l'esercito obbedisce a un solo ordine. Un cessate il fuoco è un cessate il fuoco. Se hai quattro eserciti, non hai con te un Paese. Insomma, i palestinesi hanno creato una situazione di caos» «C'è un tragico nesso nel terrorismo suicida. Quattro persone a New York causano un danno che anni di guerriglia non provocano neppure lontanamente. Lo stesso da noi: il terrorismo suicida è un disastro ideologico e che trascende i limiti territoriali del conflitto» L'abbraccio di Shimon PeresaYasser Arafat, simbolo di un dialogo mai interrotto. In basso il ministro degli Esteri con il collega egiziano Maher