Il disordine regna a KANDAHAR di Mimmo Candito

Il disordine regna a KANDAHAR DOPO LA CONQUISTA I SIGNORI DELLA GUERRA SI SPARTISCONO LACITTA'-BOTTINO Il disordine regna a KANDAHAR reportage Mimmo Candito inviato a KABUL DA qui a Kandahar ci sono 486 km. La chiamano l'au¬ tostrada n. 1, ma non bisogna badarci troppo: i nomi sono puri accidenti. Per traversare questi 500 chilometri scarsi, che altrove vorrebbero quat¬ tro o cinque ore al più, qui ci vogliono ventiquattr'ore d'au¬ to, come fosse la vecchia Le Mans. La pomposa «autostra¬ da» è soltanto un pezzo di inferno sterrato e polveroso, e questo è l'Afghanistan oggi, che dice una cosa e invece significa un'altra. Dici la guerra è finita, e però si combatte a Kandahar, a Mazar, dalle parti di Kon- duz, anche a Tahar, anche a Spin Boldak, e a combattere non sono soltanto in taleban ma pure i mujaheddin che si ammazzano fra di loro. Dici che Omar si è arreso, e però scopri che l'emiro se ne è invece andato tranquillamen¬ te da un'altra parte, magari anche con una buona quota dei suoi guerrieri santi. Dici allora che è arrivata la pace, e però poi chiedi al ministro Abdal ah che vuoi andare a Kandahar e lui ti guarda come un matto, che non se ne parla nemmeno, che quei 486 km di «autostrada» sono la morte assicurata, con tagliagole ad ogni passo e bande armate che scannano la gente per rapina o per gusto. Nell'Afgha¬ nistan che sta uscendo dalla guerra, logica e linguistica sono merce rara. Una volta, le guerre servi¬ vano a mettere un ordine. Giusto o sbagliato, chi vince¬ va stabiliva le regole e la pagina si chiudeva. Qui la guerra è finita ma ancora non si capisce bene dove sia il nuovo ordine, perché pare tornato invece il vecchio tem¬ po dell'Afghanistan frantuma¬ to dentro una miriade di pote¬ ri, dove le regole ognuno se le fa per sé e la guerra è sempre un buon affare. Kandahar è stata liberata dai taloban tre giorni fa. Sem¬ brava davvero che la caduta della città - che era stata il bastione degli studenti di Dio, la loro Roma, la loro Gerusa¬ lemme santa, intoccabile - volesse dire che un tempo violento e feroce si fosse chiu¬ so per sempre, e che davvero le milizie di Omar fossero ormai un popolo sbandato, perduto dalle sue lontane vi¬ sioni di una invincibilità ret¬ ta dalla mano di Allah. Passati tre giorni si scopre, in realtà, che il popolo sbanda¬ to ha potuto filarsela con sufficiente ordine fuori dalla città, portandosi via le armi che avrebbe dovuto consegna¬ re, e preparando quella guer¬ ra della montagna che gli americani finora hanno cerca¬ to di evitare ma con la quale, prima o poi, rischiano invece di doversi scontrare. Lo sbandamento che si im¬ maginava dovesse frantuma¬ re le file dei taleban si ritro¬ va, invece, con qualche sor¬ presa, sul fronte dei vincitori, dove le ambizioni e gli orgogli che sempre hanno gonfiato il torace di questi «signori della guerra» ora li fanno litigare ancor prima che abbiano potu¬ to mettere fermamente le ma¬ ni sul bottino. Certamente ci sono ruggini e gelosie che risalgono al tempo lontano della guerra ai sovietici, ma alla fine la ragio¬ ne della lite sta tutta nella loro voglia di potere: e se il comandante Naqib Ullah en¬ tra con i suoi uomini a Kan¬ dahar, e progressivamente ne prende il controllo, strada dopo strada, quartiere dopo quartiere, bruciando sul tem¬ po la marcia delle altre colon¬ ne che puntavano a conquista- re la città, il comandante Gul Agha che vuol tornare a esse¬ re governatore di Kandahar si lancia con i suoi uomini verso il palazzo del governatorato, ne sbatte via le squadre di Ullah, e si accomoda di nuovo sulla poltrona di velluto. I malumori che ne deriva¬ no agli altri comandanti mujaheddin rimasti a mani vuote - Wahil Abdel Sanad, Sant Alizai, Fida Acaqzai, Ahtar Jan Nurzai - rischiano di scatenare una guerra tra gli stessi vincitori, che si puntano le armi addosso e ruggiscono di rabbia anche perché ciascuno di loro alla fine difende anche gli interes¬ si di una specifica tribù (come i loro nomi tradiscono); men¬ tre i fucili restano puntati, viene allora convocata d'ur¬ genza una shura - cioè un consiglio degli anziani delle varie tribù - ma la giornata passa senza che i vecchi saggi riescano a mettersi d'accor¬ do. Il capo tribù Abdul Khaliq (che è un rappresentante di re Zahir) commenta sconsolato: «Se qui si finisce alle lotte tribali, rischiamo di mandare a fuoco tutto il Paese». E a Kandahar stamani può acca¬ dere di tutto. Se non avesse guai suoi ai quali badare, l'emiro Omar potrebbe starsene nel suo nuo¬ vo rifugio a guardare, da lontano, e a godere. La sua sparizione è già un bel miste¬ ro: lo davano per sconfitto e pronto alla resa, però poi si avvia una trattativa tra un suo ministro e il più spregiudi¬ cato dei comandanti mujahed¬ din, Naqib Ullah, e il risultato è che si arriva a un baratto: Omar consegna la città di Kandahar a Ullah, e questo lascia via libera, una tranquil¬ la via di fuga, all'emiro e ai suoi uomini. Gli americani prendono at¬ to che i loro alleati stanno compiendo un mezzo tradi¬ mento: hanno tranquillamen¬ te consegnato un salvacondot¬ to all'emiro e arrivano perfi¬ no a offrirgli una comoda amnistia se lui avrà la corte¬ sia di riconoscere che il terro¬ rismo è una nefandezza. L'emiro, che forse non è proprio una testa politica (e la sua guerra lo lascia anche ben capire), perde l'occasione di salvarsi dalla galera, punta sulla capacità dei suoi milizia¬ ni di montare una guerra in montagna, ora che sono stati autorizzati a scappar via da Kandahar, e sparisce nella notte accompagnato dovero¬ samente dalla sua famiglia. Dove sia sparito non lo sa nessuno: Gul Agha, che ha il dente davvero avvelenato, mette in giro la voce che Ullah se lo tenga nascosto, pronto a consegnarlo - con le dovute garanzie, naturalmen¬ te - al nuovo governo afgha¬ no; ma il ministro Abdullah dice di essere all'oscuro di tutto, e anche gli americani non pare abbiano migliori informazioni. Gli americani piazzano i loro marines sulle strade d'uscita di Kandahar e distri¬ buiscono le foto di Omar e degli altri capi taleban, racco¬ mandando di sparare a vista. Poi però tirano anche le orec¬ chie a Karzai, pure senza nessun rispetto («attenzione, potremmo ritirare la promes¬ sa di qualche miliardo di dollari di aiuti»), lo convinco¬ no a rimangiarsi l'offerta di amnistia, e gli fanno dichiara¬ re di essere d'accordo con loro, e che Omar è un crimina¬ le e va giudicato come tale. Anche Osama, intanto, tut¬ ti lo vedono ma nessuno lo trova. Bollettini ufficiali lo denunciano a Torà Bora, dove si arma una campagna di bombardamenti di caccia al¬ l'uomo che soltanto James Bond aveva potuto meritarsi da Spectre; Torà Bora viene (più o meno) conquistata, ma di Bin laden non si trova traccia. Il comandante Ali, che è uno dei boss di Jalalabad, giura di averlo visto cavalca¬ re come un antico Saladino un magnifico stallone bianco, ac¬ compagnato da quaranta dei suoi uomini; e di averlo visto allontanarsi verso le monta¬ gne. Forse sarà vero, ma forse in Afghanistan anche i coman- danti hanno le visioni; e gli americani decidono saggia¬ mente di continuare la ricer¬ ca con i loro tradizionali siste¬ mi d'intelligence. Nemmeno il nuovo gover¬ no riesce a mettere d'accordo la logica con la linguistica. Dichiara a Bonn e qui a Kabul che l'accordo è fatto, che tutti sono contenti, che si prepara un tempo nuovo per l'Afghani¬ stan, e poi però il comandante di Bamyan dice che lui non ci sta per niente, uno di Mazar si prende a cannonate con un altro su una questione d'inca¬ richi governativi, e lo stesso Dostum - signore della guerra e influente macchinatore di governi - fa sapere che non soltanto non è d'accordo con le decisioni prese a Bonn, ma se qualcuno pensa di andare a trovare per convincerlo a cambiare idea, lui è pronto a sparare con tutti i suoi canno¬ ni. Vuole quattrini, si capisce, ma intanto accresce la confu¬ sione. In questo sconcertante mo¬ saico di contraddizioni, dove il caos pare l'unica vera legge governativa, un povero gior¬ nalista polacco che si era fidato dei nominalismi e ave¬ va creduto che davvero la fine dichiarata della guerra volesse dire l'arrivo della pa¬ ce, e s'era messo in viaggio verso Kabul lungo «la strada della morte» che passa per Jalalabad, è stato bloccato, ripulito come un verme, e sonoramente bastonato. Gli è andata bene. Non è stato ammazzato come Maria Gra¬ zia Cutuli e Julio Fuentes, non gli hanno tagliato il naso e le orecchie come, qualche giorno fa, era accaduto a tre altri viaggiatori bloccati lun¬ go quella stessa strada. Oggi l'Uzbekistan riapre il Ponte dell'Amicizia sull'Amu Darya. Una decina di anni fa gli ultimi a passarci erano stati i soldati dell'Armata Ros¬ sa, che tornavano a casa a testa bassa, umiliati, sconfitti nella terra dove erano entrati stranieri. Il tempo è passato, gli stranieri di oggi hanno vinto la nuova guerra dell'Af¬ ghanistan. Ma qui i nomi sono puri accidenti, e forse la «vittoria» qui - finora, almeno - vuol dire altro. II comandante Naqib Ullah prende il controllo strada per strada bruciando sul tempo gli alleati-rivali, e l'ex governatore Gul Agha riprende possesso del suo palazzo cacciandone a forza i nuovi occupanti Si parla di un patto (Karzai consenziente) tra Naqib e Omar cui sarebbe stata consentita la fuga con l'intera famiglia L'America costringe il premier a ritirare l'offerta di amnistia L'unica certezza: i checkpoint dei marines Assalto a un camion carico di sacchi di grano: la situazione dei rifornimenti nell'Afghanistan del dopo-taleban è drammatica