«lo, il comandante Sayed, amico dello Sceicco»

«lo, il comandante Sayed, amico dello Sceicco» ——--rrn 0(5G1 NEL CAMPQ DEI VINCITORI, RICORDA II GIOVANE SAUDITA Al CUI REPARTO ERA STATÒ ASSEGNATO DAL SUO CLAN DURANTE lA RESISTENZA ALL'ARMATA RÓSSA «lo, il comandante Sayed, amico dello Sceicco» Sei anni di lotta contro l'Armata Rossa al fianco del leader terrorista personaggio m-^m KABUL INDURITO da vent'anni di guer¬ re, tradimenti e amicizie perdu¬ te, il comandante Sayed Zia ha negh occhi una luce di tenerezza, e anche di ammirazione, quando evoca il suo compagno d'armi. «Osama era il combattente migho- re. Ed era mio amico». Benché comandante delle forde anti-talc- ban, il mujaheddin pashtun non rinnega del tutto Osama bin La¬ den. Lo sguardo a volte appassio¬ nato, a volte perduto,: racconta le sue guerre, sputa sull'America e minaccia di assassinare il re del¬ l'Afghanistan in esiliò. Sayed Zia Ahmad ha passato sei anni della sua vita, all'epoca della Jihad contro l'esercito sovie¬ tico, a fianco del capo militare e spirituale di Al Qaeda. «Osama e io abbiamo diviso lo stesso giaci¬ glio, per mesi. E insieme andava¬ mo al fronte...» Sayed arrivò a Osama e ai suoi uomini attraverso lo zio Abdul Rassoul Sayyaf, dirigente del gruppo Ittehad-i-Islami e ispira¬ tore della Jihad, e il padre Sayed Ghaiib, capo militare di Ittehad-i- Islami e comandante del campo d'addestramento di Jaji, vicino alla frontiera pakistana. Poiché parlava l'arabo, Sayed fu scelto dal suo clan per accompagnare per cinque anni, dal 1984 al 1989, i guerriglieri stranieri. Fu così che la sua strada incrociò quella di un «saudita molto giovane, con pochi peh di barba, che non osava aningare pubblicamente i suoi combattenti», l'momo semphee, molto amichevole e molto educa¬ to» che sarebbe diventato il nemi¬ co pubbhco numero uno. Sayed conobbe bene anche Khattab, che all'epoca comanda¬ va una unità straniera islamista in Cecenia. Nel suo spirito, quegh uomini restano i «suoi fratelli musulmani», i compagni deUe rudi e gloriose ore della Jihad. «Non voghe uccidere nessun ara¬ bo - dice Sayed -. L'unico che ucciderei, se me lo trovassi davan¬ ti, è Osama, il mio amico, perché ha pianificato l'assassinio del no¬ stro capo, Ahmed Shah Massud». Seduto in un salone gelato del vecchio albeigo Bagh-e-Balandi Kabul, diventato una caserma, il comandante Sayed Zia si lascia andare ai ricordi. «Sapevamo che Osama era molto ricco, ma con noi viveva molto modestamente. Subì due volte l'assedio dei russi. Una fu nel corso di una battagha durata 24 giorni, la più lunga che io abbia vissuto in vita mia: fu accerchiato per sette giorni, con cento uomini, in cima a una collina. Minò i dintorni perché i russi non salissero sulla collina e poi, al settimo giorno, h attaccò e vinse. Osama e i suoi arabi erano molto coraggiosi. Da allora non ho mai più assistito a combatti¬ menti altrettanto terribili. Aven¬ do poca artiglieria, dovevamo aspettare che i russi si avvicinas¬ sero alle nostre trincee. Quando arrivavano a tre metri, aprivamo il fuoco. Gh arabi saltavano fuori dalle trincee incontro ai russi. Nessun afghano lo faceva. Loro amavano il combattimento corpo a corpo». Sayed non ha nulla da ridire sul fatto che Osama bin Laden abbia vissuto quasi tutta la guer¬ ra in Pakistan, a Peshawar, lonta¬ no dal fronte, per raccogliere fondi e organizzare i carichi di armi ai resistenti afghani. «All'ini¬ zio, il capo incontrastato degh arabi venuti a combattere in Af¬ ghanistan era il palestinese Ab- dullah Azzam. Poi, nel corso degh anni, Osama è diventato un uomo sempre più importante, non usci¬ va più dal suo ufficio. Quando AbduUah Azzam fu ammazzato, prese il suo posto. Lo vedevo sempre meno». Sayed Zia Ahmed racconta di quel giorno che, sul campo di battaglia, Osama trovò la sua anna-feticcio. «Alla fine di ima battagha, prese il fucile di un russo appena morto: un Kalakov, che spara proiettili di calibro più piccolo del Kalashnikov. Io ero lì. Questo fucile l'ha accompagnato fino alla fine della guerra». Un Kalakov è apparso qualche volta, negh ultimi anni, nelle fotografie e nei video di Bin Laden e la leggenda vuole che sia sempre quello che Osama il mujaheddin raccolse davanti a Sayed al tem¬ po della Jihad contro l'impero sovietico. Osama era anche «un ottimo cavaliere, davvero eccel¬ lente. Poteva saltare su un caval¬ lo lanciato in piena corsa». Arriva¬ ta la sera, leggeva «libri molto religiosi». Oggi Sayed, vincitore a Kabul, dove afferma di essere entrato «per primo» il 13 novembre alla testa dei suoi uomini, «ben prima dell'alba», s'interroga sulla guer¬ ra contro Al Qaeda. I nemici deh'Afghanistan, per lui, sono le potenze straniere che hanno ten¬ tato di occupare o di controhare l'Afghanistan: la Russia ieri, il Pakistan oggi. Per Sayed i taleban devono essere combattuti perché sono «marionette pakistane», ma lui non dimentica che furono sostenuti dalla Cia: Bin Laden non sarebbe mai potuto diventa¬ re «il capo dei taleban» senza il sostegno di Washington. Trasci¬ nato dal suo anti-americanismo, Sayed esita a odiare l'amico di ieri. «Osama era un buon musul¬ mano, ed era nostro amico, ma gh Stati Uniti, che volevano finirla con i mujaheddin, hanno fatto di lui il capo dei taleban. Osama ha voluto diventare fi capo del no¬ stro Paese». Poi accadde l'imper¬ donabile: «Uccise l'unico uomo che poteva resistergh, il nostro capo, Ahmed Shah Massud». Se non lo avesse ucciso, «tutto sareb¬ be diverso. Avremmo forse trova¬ to un terreno d'intesa». Forse potevano essere di nuovo alleati, come ai tempi d'oro della guerra sovieto-afghana. Sebbene si trovi oggi nel cam¬ po dei vincitori, Sayed non è contento, per via dell'alleanza tra il Fronte unito e Washington. «Non sono sicuro del gioco degh Stati Uniti. Se avessero voluto sostenerci, avrebbero potuto far¬ lo da sei anni, da quando Massud ripeteva che i nostri nemici sono terroristi. I bombardamenti aerei ci hanno aiutato ad avanzare, certo, ma non sono un aiuto degli Stati Uniti. Sono un dono di Dio». E questa America detestata, che per un certo periodo ha sostenuto i taleban, complotta ancora, se¬ condo Sayed, contro i mujahed din afghani. «Washington tenta di imporre il ritomo del re Zahir. Che farebbe qui quel vecchio? E' come un farmaco scaduto, non può curare i nostri mah». Sayed è furioso. «Dopo 22 anni di lotta, credo che ci siamo guadagnati il diritto di govemare l'Afghani¬ stan. E lui, che cosa ha fatto per il suo Paese?». I desideri di guerra dei Sayed non finiscono qui. «Un soldato dell'Islam dev'essere pronto a combattere, sempre e ovunque. Con l'Islam non c'è tempo per la pace...». L'avversa¬ rio è già designato: «Combattere¬ mo Zahir e le forze straniere che lo appoggiano, anche l'Onu! Ucci¬ derò Zahir! E combatteremo gh Stati Uniti, se si imporranno in Afghanistan!» Copyright Le Monde