Taleban americano, una storia disperata di Paolo Mastrolilli

Taleban americano, una storia disperata Taleban americano, una storia disperata Nato a Washington, soprawissuto all'eccidio di Qala-i-Jangi Paolo Mastrolilli NEW YORK Questa storia gli Stati Uniti non se l'aspettavano: un americano bianco, nato e cresciuto in una famiglia della classe media, finito tra i prigionieri dell'Alleanza del Nord perché sei mesi fa aveva deciso di unirsi ai taleban, «per aiutarli a costruire un vero Stato islamico». Si chiama Abdul Hamid, secondo il nome da convertito che è l'unico rivelato, e lo ha scoperto il settimanale «Newsweek» tra i soprav¬ vissuti della rivolta nella fortezza di Qala-i-Jangi. Abdul ha raccontato di essere nato a Washington 20 anni fa, ma di essere cresciuto in altre parti del Paese. Parla con un accento Mid-Atlantic e sostiene di essersi convertito all'Islam quando era sedicenne. «Poco dopo andai in Pakistan a studiare la religione ed entrai in contatto con alcuni maestri dei taleban. La loro idea mi è entrata nella testa, perché erano gli unici ad applicare davvero la legge islamica, e sei mesi fa ho deciso di andare in Afghanistan per unirmi a loro». Abdul ha detto di condividere gli attentati dell'11 settembre, anche se non ha spiegato bene le ragioni: «Sono due o tre giorni che non mangio, e la mia mente non è in grado di sviluppare il ragionamento coerente i che sarebbe necessario per farmi capire». Comunque quando sono cominciati i raid americani sull'Afghanistan lui si trovava a Kunduz, con le forze stranie¬ re irriducibili che appoggiavano i tale¬ ban e Al Qaeda. Ha combattutto laggiù fino all'accordo per la resa col generale uzbeko Dostum, quindi è stato portato a Mazar-i-Sharif con tutti gli altri prigionieri mercenari. Laggiù, nella fortezza di Qala-i-Jangi, è diventato uno dei protagonisti della rivolta del 25 novembre, costata la vita a circa 600 detenuti e all'agente della Cia Mike Spann. «Appena catturati - ha raccontato - due taleban avevano fatto esplodere una granata, uccidendo un paio di persone. Quindi ci avevano legati e richiusi nei sotterranei del carcere. La mattina dopo hanno cominciato a farci uscire uno per uno, per farci interroga¬ re dai due americani, Mike e Dave. Ma mentre rientravamo, qualcuno di noi ha tirato fuori un coltello o una grana¬ ta, ha aggredito le guardie, ha preso le loro armi e ha iniziato a sparare. Io ho cercato di scappare, ma sono stato ferito a una gamba, e credo che l'agente americano sia stato ammazzato di botte in quel momento». Dopo una breve resistenza all'aper¬ to, Abdul si è rifugiato coi superstiti nel sotterraneo del carcere, e allora è cominciato l'assedio. «Hanno versato carburante dentro la fortezza, per dar¬ le fuoco e ucciderci con le fiamme e il fumo. Ma quando sono scesi a prende¬ re i cadaveri, un'ottantina di noi erava¬ mo sopravvissuti e abbiamo sparato a chi entrava. Allora hanno ripreso a lanciare bombe nel sotterraneo, ma scoppiavano nel corridoio e non ci colpivano, perché eravamo nascosti nelle celle. Quindi hanno deciso di stanarci con l'acqua, allagando il carce¬ re. I più' forti sono riusciti a cavarsela, ma alcuni feriti non potevano alzarsi e sono morti affogati. Alla fine, stremati e congelati, abbiamo deciso di arrender¬ ci». Abdul ha perso il suo passaporto americano, e ora potrebbe diventare uno dei prigionieri destinati ai tribuna¬ li militari.

Persone citate: Abdul Hamid, Dostum, Mike Spann

Luoghi citati: Afghanistan, New York, Pakistan, Stati Uniti, Washington