Sansone non fa crollare il tempio

Sansone non fa crollare il tempio APPLAUSI E DISSENSI PER L'APERTURA DI STAGIONE AL CARLO FELICE DI GENOVA. REGISTA DE HANA Sansone non fa crollare il tempio L'eroe sedotto da Dalila in una centrale nucleare Paolo Gailarati GENOVA La stagione lirica del Carlo Felice è stata inaugurata, l'altra sera, nel segno dello sfarzo più sfrenato: l'al¬ lestimento di «Samson et Dalila» di Camille Saint-Saéns, affidato a Hu¬ go de Hana, autore di regia, scene e costumi, ha diviso il pùbblico tra due partiti: chi è rimasto abbaglia¬ to, e chi ha visto, invece, in questa ostentazione di ricchezza, un'espressione di cattivo gusto e di violenza nei confronti della splendi¬ da partitura. «Samson et Dalila» (1877) è un'opera francese al cento per cento: ha grandi pagine corah, un sontuoso balletto, un'evidente fissità oratoriale incrementata da suggestioni wagneriane, poca azio¬ ne e molta esclamazione secondo un modello importato in Francia nel Settecento da Gluck, e riverito per decenni. Ma del grand opera non possiede gli aspetti pompieristici, e dell'opera lyrique, alla Gounod, ri- fiuta le smancerie sentimentali. Di¬ venta così qualche cosa di diverso e di profondamente originale. Il classi¬ cismo di Saint-Saéns è un antidoto alle tentazioni del cattivo gusto: gli orientalismi sono trattati con un nervosismo in punta di penna, le austere lamentele e invocazioni dei cori di ebrei oppressi con un arcai¬ smo asciutto e levigato, il cuore del dramma, ossia la magia seduttrice di Dalila e la beaudeleriana conce¬ zione dell'eros come veleno, sono resi con una melodia elegantissima e cristallina, che non ha nulla in comune con le densità oleose del decadentismo e, a ben vedere, nep¬ pure con le stregonerie musicali di Wagner, ma, nella sua limpidezza, sembra anticipare il Novecento. «Samson et Dalila» è un dramma biblico illuminato da un baluginare di luci dirette e riflesse che lo rendo¬ no agile, leggero, moderno, nel pre¬ sagio di Debussy e Ravel. Lo spettacolo di De Ana, verosi¬ milmente costosissimo, ha inteso invece questa modernità in senso opposto, come sfoggio di una pesan¬ te apparecchiatura tecnologica che trasporta l'azione in un ambiente immaginario : cinque piani di gabbie metalliche, illuminate di dentro e di fuori, con colori mirabolanti, fanno da sfondo; un paravento di allumi¬ nio, sagomato a rilievi, taglia il palcoscenico lucido e riflettente; un parallelepipedo è il giaciglio su cui Dalila dovrebbe sedurre Sansone, ma, invece che nel suo giardino, sembra di essere in una centrale nucleare, o sotto una rampa di lancio per missili stratosferici. Dun¬ que, addio voluttà. Le incastellature salgono e scendono, grandi ponti metalhci planano verso il palco, mentre i personaggi gesticolano in costumi incredibili, per metà anti¬ chi, per metà fantascientifici, dai , colori violenti, tenendo in mano arnesi diversi come aste luminose, tubi metalhci piegati ad arco oppu¬ re, come fanno gli ebrei sconfìtti, rottami d'automobili, portiere, fana¬ li, volanti, cruscotti, ruote, sedili sventrati. Tutto questo apparato scenico e tecnologico serve a ben poco perché, al momento buono, fa cilecca. Che cosa si aspetta infatti chi vede «Sansone e Dalila»? Natu¬ ralmente, il gran finale, con il crollo del tempio che qui viene abolito: Sansone fa un gesto di magia, il muro di tubi metalhci lancia acce¬ canti bagliori e i circostanti si limita¬ no a dimenarsi, finché le luci si spengono. Seguono applausi, ma anche voci di protesta, quando si affaccia il regista; il direttore Mi¬ chel Plasson, un grande esperto di questa musica, riceve, invece, una giusta ovazione per aver condotto .'Orchestra e l'ottimo coro (maestro Ciro Visco) con finezza e vivacità, e i due cantanti protagonisti Dolora Zajick e Clifton Forbis, sono accolti con applausi misurati: hanno stile, e voce abbastanza bella, ma non trop¬ pa convinzione nel rendere, rispetti¬ vamente, il fascino freddo di Dalila, e l'impeto istintivo dell'eroe biblico, simpatico perché è insieme forte, ma anche umanamente cedevole al richiamo femminile della bellezza. Due personaggi che impongono ai cantanti attori una diffìcile presta¬ zione, nel segno dell'ambiguità: va¬ lore essenziale, che sta al capolavo¬ ro di Saint-Saéns come l'apodittica chiarezza sta al teatro di Verdi. Ma l'ambiguità, l'enigma, l'allusione erano i grandi assenti dallo spettaco¬ lo dell'altra sera. I direttore Michel Plasson

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