Il RITORNO dei RUSSI di Mimmo Candito

Il RITORNO dei RUSSI MILITARI RUSSI NELLA CAPITALE DEI MUJAHEDDIN Il RITORNO dei RUSSI Un corpo di spedizione per riaprire l'ambasciata reportage Mimmo Candito inviato a KABUL Ei russi sono arrivati. Sono arrivati in 100, con 13 camion e una faccia di brava gente. «Siamo qui per aiutare l'Afghanistan», dice Ladislav con buono spirito. Ma qual¬ che preoccupazione ce l'ha, se prima di parlare chiede il biglietto da visita e il nome del giornale. Laggiù, a Sama¬ ra, da dove viene, debbono avergli spiegato che l'aria che gira da queste parti non è proprio salubre, per quelli come lui. Certe memorie si piantano dentro che nessuno le può cancellare, Kabul co¬ minciò a trovarsi in guerra nel '79 e la guerra - in qualche modo quella stessa guerra - non è finita ancora oggi. Sono passati ventidue anni. «I russi? no, io non mi fido»j diceva ,.,Mohammed Isak con la sua bici, fermo a ; guardare quegli stranieri che montavano il loro campo su uno slargo di terra battuta; e si puliva le lebbra con il. dorso della mano, come per cancellarne ogni traccia. Il russo Ladislav non vuo¬ le parlare della guerra. «Sono cose passate», dice. E in realtà non pare imbarazzato. Ha l'uniforme blu dei dipen¬ denti del Ministero del¬ l'Emergenza, ma sembra pro¬ prio un soldato, con i capelli biondi tagliati corti a spazzo¬ la, e quella posizione che assume - di «riposo», le mani incrociate dietro la schiena - quando risponde alle doman¬ de. Il suo ministero è. una sorta della nostra protezione civile, «sì, siamo tutti borghe¬ si, niente militari». Però at¬ torno al campo hanno piazzar to cinque soldati delle squa¬ dre speciali, con un giubbot¬ to antiproiettile, un mitra e un coltellaccio che pende dalla tasca sinistra. Della serie non si sa mai. Anche il campo che stanno montando, qualche preoccu¬ pazione pare tradirla. I ca¬ mion li hanno messi a cer¬ chio, come i carri dei pionieri che Ford ci faceva vedere nella prateria quando gli in¬ diani cattivi volevano radere lo scalpo di John Wayne. Poi però si è scoperto che gli indiani non erano tanto catti¬ vi, difendevano la loro terra; e anche gli «indiani» dì qui, più che cattivi sono gente che per la propria terra e l'indi¬ pendenza è capace di brucia¬ re qualsiasi campo dì carri. «Dovrebbero averlo impara¬ to, che questo posto gli viene indigesto», diceva Hadim Kar- zi, che curiosava anche luì attorno al campo dei russi. «Spero, per loro, che non vogliano ripetere gli errori delpassato». I rapporti intricati tra rus¬ si e afghani sono una storia vecchia, assai più "vecchia della guerra dei mujaheddin contro l'Armata di Breznev. Cominciano nel 1828, quan¬ do la Russia sconfigge la Persia e l'Emiro di Kabul si vede accusato dagli inglesi di cospirare contro gli interessi di sua Maestà Britannica, forse non era del tutto vero, ma l'assedio di Herat, in quegli anni, offre a Londra lo spunto per lanciare una spedi¬ zione militare, la sua prima spedizione, contro l'Afghani¬ stan. A quel tempo il «Raj» britannico seguiva con qual- che ansia i,progetti d'espan¬ sione dell'impero zarista ver¬ so i mari caldi; e quando, nel 1878, una missione russa vie¬ ne ricevuta a Kabul, mentre agli inglesi viene rifiutato lo stesso trattamento, un'arma¬ ta con pifferi e cornamuse marcia indignata su Jalala- bad, Khost, Kalat-i-Ghilzai fino a Kandahar, L'Emiro, Sher Ali chiede allora alla Russia l'aiuto che questa gli aveva promesso, ma i russi si mostrano sordi, e l'ingenuo emiro muore a Mazar-i-Sha- rif. Al figlio, Yaqub Khan, non resta che scendere a patti con gli inglesi, e deve firmare un trattato dove: «gli emiri dell'Afghanistan d'ora in avanti s'impegnano a rego¬ lare i loro rapporti con i paesi stranieri in accordo e secon¬ do le volontà del governo britannico». Chi ha letto il «Kim» di Kipling - una delle letture ancora oggi più affascinanti, per chi viaggia in queste terre - ricorda certamente le avventure del Lama e del suo giovane discepolo presi nella ruota del «Great Game», il Grande Gioco che vede ingle¬ si, russi e afghani, ingaggiati in un duello mortale. Si crea in quegli anni il destino del¬ l'AJ^hanistan come stato-cu- ' scinetto tra le ambizioni del¬ le potenze che lo contornano; e la guerra che segue all'inva¬ sione sovietica del dicembre del 1979, la guerra di guerri¬ glia dei mujaheddin sulle montagne afghane, è il risul¬ tato inevitabile di un'avanza¬ ta strategica che - aprendo a Mosca la via del Golfo - tendeva a modificare l'equili¬ brio territoriale fissato nelle regole del Great Game. Il russo Ladislav no, non ha letto «Kim» e non sa nulla del Grande Gioco. Però sa che la sua missione qui non è limitata al montaggio di un ospedale militare. Cento uo¬ mini e 13 camion, soltanto per un ospedale da campo, non possono non apparire una spedizione troppo nume¬ rosa anche a chi sa poco di emergenze. «In effetti abbia¬ mo anche il compito di riapri¬ re la nostra ambasciata», am¬ mette Ladislav. Questi sono giorni di gran¬ di pulizie, nelle ambasciate di Kabul. Non c'è ancora un riconoscimento ufficiale del governo di Rabbani, ma intan¬ to le bandiere cominciano a sventolare di nuovo sui pen¬ noni delle legazioni, nell'am¬ basciata francese e tedesca, in quella cinese, nell'irania¬ na, nell'indiana. Le potenze regionali si stanno piazzando per spartirsi a dovere le spo¬ glie dell'Afghanistan, è arri¬ vato anche l'attaché militare americano con quattro arma¬ di vestiti da marines; soltan¬ to i russi mancavano, e ora eccoli qui con il loro campo piazzato alla John Wayne. Il ritardo non è, natural¬ mente, un problema di buro¬ crazie. I russi (i sovietici, allora) se ne partirono da questo Paese nella primavera deir89, battuti dai mujahed¬ din delle montagne e costret¬ ti a invertire verso casa la marcia dei loro carri armati; le truppe di Breznev si erano battute bene, ma ebbero qua¬ rantamila morti (non i quindi¬ cimila della versione ufficia¬ le), e a parecchi dei soldati presi prigionieri i mujahed¬ din tagliarono il naso e le orecchie, terrorizzando l'inte¬ ra spedizione. Il Ponte del¬ l'Amicizia, sull'Amo Darya, nei giorni di quella ritirata dovette farsi testimone d'una delle più cocenti sconfitte dell'Armata Rossa. «Non tor¬ neremo mai più», disse il comandante del mesto ritor- no a casa. E l'ambasciata venne chiusa. A raccontarla così, sembra una conseguenza logica, natu¬ rale. Ma chi non è venuto mai a Kabul non sa che cosa fosse l'ambasciata sovietica: non un palazzo solenne, o una vecchia villa, o comunque quello che sono generalmen¬ te le ambasciate di ogni Paese in qualsiasi parte del mondo, ma piuttosto una vera e pro¬ pria città, un compound di più dì due chilometri di lun¬ ghezza con all'interno venti¬ quattro, edifici, fontane, ma¬ gazzini, depositi di ogni tipo. L'avevano tirata su al tempo dì Nur Mohammed Taraki, nel '78, quando questo Paese aveva cambiato il proprio nome in Repubblica democra¬ tica dell'Afghanistan, e il par¬ tito comunista locale (il Khalq-Parcham) sì era preso il potere a Kabul. La chiama¬ rono «ambasciata», ma era un po' dì tutto: legazione diplomatica, comando milita¬ re, centro d'ascolto, deposito d'armi, scuola di spionaggio, e chissà quante altre cose. Oggi, dopo dodici anni, l'« ambasciata» è diventato un'angosciosa corte dei mira¬ coli, un disperato campo pro¬ fughi che ospita ventimila disgraziati senza casa, senza lavoro, senza speranza. Sen¬ za vita. I ventiquattro edifici sì sono trasformati in topaie miserabili, le fontane non hanno più acqua, nugoli di bimbi giocano nella polvere; e le donne, chiuse nel burqa, sbirciano la gente da dietro le feritoie di mattoni. «Se i russi tenteranno dì tornare qui, faremo la rivoluzione», dice Hamid Ullaq, che un tempo faceva il medico e ora è il rappresentante di questo pic¬ colo mondo di morti di fame. Ladislav s'allontana per an¬ dare a parlare con un ufficia¬ le dei mujaheddin, debbono trattare problemi di sicurez¬ za. L'ufficiale si chiama Mul¬ lah Beg, e certo che ha com¬ battuto contro i sovietici. Ma ne ha anche ammazzati? Lui scuote la testa, e dice: «Sono cose passate», e ride allegro, con i canini che quelli di Dracula sembrano appena stuzzicadenti. Ladislav non vuole parlare della guerra ai tempi dell'Urss «Sono cose passate» Però intorno al campo hanno piazzato cinque soldati delle forze speciali, con mitra e coltellaccio perché non si sa mai La vecchia sede diplomatica, una cittadella formata da ventiquattro edifici per una lunghezza di due chilometri, è per ora inutilizzabile. E' occupata da ventimila profughi che non hanno intenzione di andarsene I SORRISI DELL' 89, LA CAUTELA DI IERI Erano partiti da Kabul nel 1989, quando ancora si chiamava¬ mo «sovietici» (foto a sinistra). Battuti dopo dieci anni di occupazione, lasciavano un paese di vedove, mine antiuomo e rottami bellici. Dodici anni dopo,si chiamano «russi» e lavorano a fianco degli americani e dei mujaheddin. Le loro armi suscitano la curiosità degli afghani (foto), ma anche molte perplessità: i ricordi bruciano ancora