L'ISOLA è un TESORO

L'ISOLA è un TESORO ANNO XXV » N. 1287 » 24 NOVEMBRE 2001 » LA STAMPA « SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO » SPED. IN ABB. POST. « PUBBL. 450Zo « ART. 2 COMMA 20B LEGGE 662/96 - TO » E-MAIL: tuttolibri@lastampa.it L'ISOLA è un TESORO L'IDEA Marco Alme PARE che, quando la nebbia anestetizza le acque scure e fredde della Manica e impe¬ disce di veder al dì là di quelle onde color piombo, gli ingle¬ si dicano che l'Europa è isolata. Isolani che danno degli isolati ai continentah. Ogni punto di vista porta con sé la sua buona dose di relativismo. D'altra parte ad asso¬ ciare "isola" a "isolamento" è chi vive sulla terraferma. La solitudine dell'isola è una metafora buona da pensare, al punto che il nostro immaginario è ricco di isole "che non ci sono", "non trovate", "del tesoro", "dei senza nome", "dei sen¬ za colore", "del giorno prima". "Nessun uomo è un'isola, intero in se stesso" scriveva John Donne nel XVII secolo. Ancora una volta è l'immagine della solitudine a fare paura. Eppure oltre ottantacinque anni fa Bronislaw Malinowski, an¬ tropologo polacco di nascita e bri¬ tannico di adozione, sbarcava sulla spiaggia di Kiriwina, un'isola mela¬ nesiana dell'arcipelago delle Tro- briand, per iniziare una ricerca che avrebbe dipinto un affresco di que¬ ste isole tutt'altro che isolate. In Argonauti del Pacifico occidentale, uscito nel 1922 (Newton Compton 1973), Malinowski descrive il cir¬ cuito del kula, uno scambio rituale circolare di collane e braccialetti che finiva per creare una sorta di legame tra gli abitanti di quelle isole. Le belle piroghe intarsiate dei trobriandesi solcavano i mari dell' arcipelago sia in senso orario sia in senso antiorario, portando collane di conchiglie rosse nel primo caso e bracciali di conchiglie bianche nel secondo. Questi oggetti venivano continuamente scambiati dagli abi¬ tanti delle isole cosicché ciascuno conservava, per un certo periodo, un oggetto di proprietà di un altro trobriandese, magari sconosciuto. Poiché, secondo la cultura locale, ogni oggetto donato porta con sé qualcosa del suo proprietario, il circuito del kula fungeva da promo¬ tore di legami tra persone che il mare separava. Chi partecipava al circuito cerimoniale sentiva di ap¬ partenere a una comunità benché dispersa. Isole che si uniscono, isole che frammentano. C'è un altro mondo di isole che, grazie alle opere di alcuni suoi intellettuali, si è trasfor¬ mato in una metafora delle com¬ plesse identità che attraversano il mondo moderno. Si tratta di quel ricco e variegato arcipelago che costella il Golfo del Messico. "Il mondo caraibico non comprende solo le isole, ma si estende alle coste del Sud degli Stati Uniti, alla costa orientale dell'America Centrale, co¬ me il Belize e il Nicaragua, alla Colombia, al Venezuela, al Brasile. E' un grande circolo, che si oppone alla pretesa linearità delle passate forme di conoscenza". A parlare così è Edouard Glissant, scrittore e saggista martìnicano, erede morale di Aimé Cesaire e teorico della creolizzazione. E' lui a proporre un interessante confronto tra il mondo del Mediterraneo e quello dell'arci¬ pelago che gli ha dato ì natali. Confronto di metafore che si tra¬ sforma, con straordinaria efficacia, in opposizione storico-culturale: "Il Mediterraneo è un mare che tende a concentrare. Le forze al suo inter¬ no, tendono allo stesso ideale, all' esaltazione dell'Uno. Non è un caso che le tre maggiori religioni mono¬ teistiche, cristianesimo, ebraismo e islam, sono nate proprio nell'ambi¬ to mediterraneo. Al contrario l'arci¬ pelago è un mondo che divide, il regno della diversità. L'arcipelago disgrega, non concentra". Sono que¬ sti i fondamenti del pensiero dì Glissant che lo conducono a parlare di creolizzazione. "La creolizzazione è diversa dal meticciato, perché è imprevedibile. Tu puoi incrociare piselli dì colore diverso e prevedere, in base a lejjgì naturali, cosa produrrà l'incrocio. La creolizzazione non è mai preve¬ dibile, è una sorta dì laboratorio sperimentale dove sfuggire all'uni¬ formità dell'essere, un nuovo modo dì pensare. Per questo forse ì Caraì- bì sono uno dei posti dove succedo¬ no la maggior parte delle cose che preparano l'avvenire". L'arcipelago frammenta e polve¬ rizza ogni cosa. L'identità dei suoi abitanti non è solo un sovrapporsi dì strati diversi, succedutisi nel tempo. L'identità dei caraibici sì nasconde sempre dietro a un'altra faccia dì un cristallo che sembra mutare colore contìnuamente. Inde¬ bolitosi il mito della negritude, che riproponeva, in chiave africanisti¬ ca, lo stesso modello dì unità cultu¬ rale che Glissant attribuisce al Me¬ diterraneo e alla cultura occidenta¬ le in generale, sì impone oggi un pensiero nuovo, il pensiero dell'arci¬ pelago. Un pensiero fatto dì isole e isole fatte dì uomini diversi tra di loro e diversi in loro. Un pensiero che non va alla ricerca delle origini, ossessionato dalla purezza, ma si gode quella moltitudine dì diversi¬ tà che riesce a contenere. Se è vero, come dice Glissant, che anche la Colombia fa parte del mondo carai¬ bico, allora suona quanto mai coe¬ rente il dialogo descritto dal colom¬ biano Gabriel Garda Màrquez in Dell'amore e altri demoni: "Alla mia età, e con tanto dì quel sangue mescolato, non so più con sicurezza di dove sono - disse Delaura - Né chi sono". "Nessuno lo sa in questi regni - disse Abrenuncio. E credo che ci vorranno secoli per saperlo". Pare davvero che le identità, nelle isole dei mari del Sud siano destinate a confondersi. A darcene un esempio è un altro celebre antro¬ pologo oceanìsta, questa volta con¬ temporaneo: Marshall Sahlins. Nel suo libro Isote di storia (Einaudi, 1986), attraverso la rilettura degli eventi che condussero alla morte di James Cook, Sahlins vuole dimo¬ strarci come "non esista una Storia nella quale confluiscono tutte le storie particolari lette alla luce dì quella, ma che esistono differenti attribuzioni di senso agli eventi". Era il 17 gennaio del 1779, quan¬ do il capitano Cook, al comando del suo Discovery, raggiunte le isole Hawaii, entrava nella baia dì Kea- lakekua. L'accoglienza degli indìge¬ ni fu la più generosa mai riservata a un viaggio dì scoperta europeo in questi mari. Giunti a terra un sacer¬ dote avvolse Cook con una stoffa rossa e lo condusse al tempio dì HìMau, mentre la gente lo acclama¬ va chiamandolo "Lonol". Qual era il motivo dì tanta gioia, per non dire di quasi devozione? Ogni anno, tra novembre e di¬ cembre, con la comparsa all'oriz¬ zonte delle Pleiadi, nell'isola dì Hawaii iniziavano le celebrazioni del Makahiki, la festa della rigene¬ razione della natura. La divinità protettrice dì questa cerimonia era Lono, il dìo della fertilità, la cui vela compariva quando le Pleiadi si affacciavano all'orizzonte. Secondo il mito locale, Lono era stato esilia¬ to dall'isola per gli altri mesi dell'an¬ no e percorreva un lunjgo viaggio circolare, in senso orario, attorno all'isola per fecondarne tutti i paesi. Cook era arrivato proprio quando gli hawaiani attendevano Lono e lui era stato accolto come una divinità. Il cerimoniale prevedeva che dopo trentatré giorni Lono in¬ scenasse un combattimento rituale con il re dell'isola e ne venisse ucciso. Il suo corpo, caricato su una canoa, avrebbe ripreso la via dell' esilio, per fare ritomo l'anno succes¬ sivo. Cook ripartì da Kealakekua il 4 febbraio, al termine delle celebra¬ zioni, ma una tempesta danneggiò le sue navi e lo costrinse a fare ritomo alla baia. Era il 14 febbraio, quando la nave inglese riapparve agli isolani. Nessuna festa, nessun canto, ma un atteggiamento dì osti- lìtà. L'improvviso ritomo di Lono, peraltro dalla direzione opposta, aveva turbato gli indìgeni. Era un segno dì disordine, una sfida all'au¬ torità regale. Occorreva il sacrificio del dìo per risanare una rottura dell'equilibrio cosmico. Fu così che Cook cadde sotto i colpi dei capi hawaiani, subendo il destino del dìo con cui era stato identificato. Un orizzonte lo aveva divinizzato, un altro orizzonte lo aveva condan¬ nato. Quello dell'orizzonte sembra es¬ sere un componente ineluttabile della vita dell'isola. Una linea a 360 gradi da cui ci si attende arrivi qualcosa. "Dal mare non arriva mai nulla di buono" recita un proverbio sardo, a testimoniare la scarsa pro¬ pensione marittima di chi vive in un'isola talmente grande da sem¬ brare un continente. C'è stato inve¬ ce chi per anni ha atteso qualcosa di buono dal mare. All'inizio del secolo, nelle isole della Melanesia, si era diffuso il culto del cargo. Tra gli indigeni colonizzati dagli euro¬ pei e costretti a lavorare per questi ultimi, si diffuse una sorta dì culto millenaristico che profetizzava l'ar¬ rivo dì una nave carica dì merci (cargo) guidata dagli antenati, che avrebbe dato inizio a una nuova era dell'abbondanza e avrebbe pro¬ vocato la scomparsa dì tutti i bian¬ chi. Peter Worsley, autore dì La tromba suonerà (Einaudi, 1961), che ha analizzato in chiave storica e antropologica questi culti, ha messo in evidenza come questi segnalassero una profonda lacera¬ zione nel tessuto culturale degli indigeni. Lacerazione che dava vita a movimenti di riscossa, tesi a raggiungere una forma di moder¬ nizzazione espressa attraverso for¬ me di sincretismo, come quella dì associare la nave dei bianchi con il mondo degli antenati. Ma l'orizzonte non è solo porta¬ tore d'attesa, è anche un punto a cui tendere. E' quella meta ignota che ha spinto i primi abitanti dell' Oceania a occupare una per una le infinite isole dì quel vastissimo arcipelago, spesso separate da mi¬ gliaia di chilometri di mare. Perché dall'isola bisogna uscire di tanto in tanto. Come per gli abitanti di Futuna, una piccola isola polinesia¬ na studiata di recente da Adriano Favole, che in LapaZma del potere (il Segnalibro, 2000) descrive l'an¬ sia di viaggiare che un tempo li spingeva ad avventurarsi in perico¬ losi viaggi in canoa e a fare della loro isola uno dei tanti punti di approdo per gli altri "vagabondi del Pacifico". L'irrompere delle poten¬ ze coloniali pose fine ai viaggi tradìzionah chiudendo questa so¬ cietà in un isolamento alquanto "modemo". L'orizzonte diventava confinamento. Confine che diventa metafora della nostra identità, del¬ la nostra cultura, talvolta stretta, dalla quale tendiamo talvolta a sfuggire per allargare il nostro oriz¬ zonte. Ecco allora che l'orizzonte come dimora dell'ignoto rappresen¬ ta proprio quell'alterità di cui abbia¬ mo bisogno. L'ISOLA è un TESORO