A Kabul l'ora dei diplomatici-Rambo di Mimmo Candito

A Kabul l'ora dei diplomatici-Rambo A Kabul l'ora dei diplomatici-Rambo Ambasciate riaperte da «funzionari» con spalle da marines Mimmo Candito inviato a KABUL Ieri sono apparse due bandiere, anzi tre, nel cielo di Kabul. La guerra ancora abita qui, la città non ha antenne, né cartelloni, manifesti, luci al neon, non ha caffè, non ha semafori, non ha pubblicità. E' una città di vite che non si incrociano, ognuno va da sé, alla propria sopravvi¬ venza. E lo spazio quotidiano è corto, va dal mattino al tramon¬ to, poi la paura gela la notte, e le strade diventano dominio delle bande di cani. Il tempo della pace non è arrivato, molti si sono accorciata la barba e però non la tagliano via; non punta¬ no sul futuro. Ma quelle tre bandiere dicono che il futuro è comunque cominciato. Le bandiere sono state issate sui pennoni dell'ambasciata di Francia e di Germania. I muri estemi delle due ambasciate sono in rovina, i marciapiedi sono sfondati, anche i cancelli hanno bisogno di un solenne restauro; ma intanto la loro vita ufficiale è ripresa. La ban¬ diera in un'ambasciata segnala la ripresa delle attività diploma¬ tiche, forse a un solo passo dal riconoscimento ufficiale del go¬ verno Rabbani. Ieri è stata issa¬ ta anche la bandiera rossa della Cina, ma al cancello si presenta¬ no soltanto due gentili signori afghani con barba di ordinanza, che dicono di non sapere nulla e di non avere nulla da dire. Finora l'impegno diplomati¬ co resta comunque limitato a livello sempre dell'incarico di affari; gh ambasciatori non so¬ no arrivati, e «il loro arrivo non è previsto», dicono nelle due ambasciate occidentali i funzio¬ nari (questi almeno parlano) che vengono al cancello. Funzio¬ nari che somigliano più a Ram- bo che a Kissinger, capelli corti, spalle squadrate, mascella for¬ te, e si capisce bene quali siano le preoccupazioni maggiori in una città senza sicurezza. Ma l'Afghanistan è assai più di un Paese dove la guerra va lentamente finendo; qui si in¬ crociano interessi geostrategici che coinvolgono il futuro dell'in¬ tero continente asiatico, e la storia delle bandiere che torna¬ no a sventolare nel cielo della capitale non è soltanto la ripre¬ sa delle relazioni internaziona¬ li. A Kabul è scoppiata la guerra delle ambasciate, e ora riprende a girare il Great Game, il «gran¬ de gioco» che tra l'Ottocento e il Novecento vide l'impero zari¬ sta e l'impero britannico scon¬ trarsi su queste montagne per guadagnare il controllo dei traf¬ fici transasiatici e l'accesso alle acquo calde del Golfo. La nuova edizione del Great Game ha altri concorrenti, e lo si scopre subito facendo il giro della città. Il fatto che il primo Paese a riaprire la sede sia stato l'Iran, 5 giorni fa, la dice lunga sulle ambizioni regionali di Teheran. Finora è arrivato a Kabul un diplomatico di rango inferiore, e la bandiera naziona¬ le non è stata issata; ma intanto è stato battuto ogni altro con¬ corrente, e sul tavolo del nuovo Afghanistan gh ayatollah butta¬ no giù una carta che mette in crisi gli altri convitati. Si guadagna un buon posto anche l'India, che ha riaperto la sede 4 giomi fa. Ancora tutto è in aria, e il cortile è pieno di operai al lavoro e i diplomatici (5 o 6, addirittura) sono, anche qui, di rango inferiore. Però Delhi vince un vantaggio con l'eterno rivale pakistano, la cui ambasciata è invece chiusa, svuotata, trasformata nella resi¬ denza, sorvegliatissima, d'uno dei boss dei mujaheddin, il pro¬ fessor Ausmad Sayef, tesoriere degli interessi sauditi. Anche gh americani si fanno vivi. Nella loro ambasciata mes¬ sa a fuoqp dai talebani un paio di settimane fa è arrivato pro¬ prio ieri un semplice attaché militare, in auto blindata e scorta adeguata di marines. Ci tengono a far sapere che «non si tratta di riconoscimento dell'Al¬ leanza», e stesso obiettivo se¬ gnala l'inviato di sua maestà, mister Evans, che ribadisce co¬ me lui sia soltanto «il rappresen¬ tante inglese, nulla più». Tra Londra e Washington la lettura dei problemi afghani non è identica, Londra vorrebbe un impegno sul terreno e Washin¬ gton frena; ma le divergenze per ora tacciono, e le bandiere se ne stanno nel cassetto. Resta la Russia. Aveva un'« ambasciata» mostruosa, un compound grande quanto un villaggio, con ventiquattro enor¬ mi edifici e una cinta che sem¬ brava la Grande MuragUa. I russi se ne andarono quando i mujaheddin vinsero la guerra, ora quei 4 chilometri quadrati sono diventati un angoscioso campo profughi, con 20.000 ri¬ fugiati che (soprav)vivono in condizioni disperate. Quando al dottor Hamid Hullaq che gh fa da portavoce si chiede cosa faranno, ora che Mosca vuole riaprire una sua ambasciata, tra un paio di giomi, lui ribatte tranquillo: «Allora faremo la rivoluzione». L'ambasciata italiana è chiu¬ sa. Il vecchio custode Ali Safdar, che la cura con passione (viali e aiuole sono la parte più pulita di tutta Kabul), aspetta i nuovi ospiti.

Persone citate: Ali Safdar, Hamid Hullaq, Kissinger, Rabbani