KABUL

KABUL : ::::::v:'.- '...■^.':-.:.^\: ■■''■■y-. ALLE PORTE DELLA CAPITALE LIBERATA KABUL Quando la guerra diventa spettacolo reportage Inviato a MAIDANSHAR Convoglio sulla strada per Kabul LO spettacolo comincia alle sette in punto, quando il sole viene su rabbrividendo dai 4000 metri del Paghman Rango e si disten¬ de lento dentro l'altopiano di Kabul. Qard Aga, 28 anni, professione mujahed, si tira allora fuori dalla coperta nella quale si è avvoltolato contro il gelo, sfilangia le ossa, e si avvicina alla stazione di servizio. Comincia un'altra giornata di lavoro, la guerra può essere anche una routine. Sul fuoco, appena a due passi dalla pompa di benzina, c'è il samovar del tè e sembra l'appuntamento del mattino al bar d'angolo. Tutti zitti e tutti a bere. La notte però non dev'essere stata diversa da quella del principe di Condè, nessuno pare gran che agitato, e i kalashnikov se ne stanno ammucchiati dietro il muretto del cesso. La spiegazione è che mancano gli spettatori. Alle sette del mattino la gran parte dei giornalisti ancora dorme, e il campo di battaglia ha la stessa aria sciatta e trascurata degli studi televisivi prima che lo show venga montato. Questa Maidanshar sta a venti chilometri da Kabul. Una comodità straordinaria, bisogna riconoscerlo; è quasi come avere il cinema in casa. Uno al mattino si alza (dal suo sacco a pelo), fa la barba (se c'è l'acqua), prende il tè (il caffè è una ciofeca), poi monta in auto e (se il motore parte) parte anche lui. La sola scocciatu¬ ra sono i due posti di blocco che rallentano la marcia; ma non si possono avere tutte le comodità. In fondo, siamo in guerra. Alle, sette, insomma, più che-lo spettacolo '' ' comincia l'alle¬ stimento, quella cosa che attrezzi- - '- sti; montatori, elettricisti, pre¬ parano sul set in attesa che arrivi il pubblico. E il pubblico arriva un paio d'ore do¬ po, lentamente, con trascuratez¬ za, avvicinando¬ si al campo di battaglia come chi sa che la guerra non sono i soldati a farla ma le loro teleca¬ mere e i loro tac¬ cuini. Il punto di raccolta è la sta¬ zione di servi¬ zio, quelli della tv scendono dall'auto e si vestono con il giubbetto antiproiettile: fa tanto reporter di guerra, e l'inquadratura ne guada¬ gna un sacco. Sdraiato sul cassone del blindato che si sta scaldando al sole, Qard Aga osserva curioso. E dice qualcosa - certamente di poco carino - al compagno che gli sta accanto. Indossano entrambi le divise nuove dell'Allean¬ za, poi perii resto ognuno si arrangia: e Qard ha un magnifico paio di scarpe da tennis finto- Nike che fa a pugni con la marzialità della tuta mimetica. Ma si sa che le guerre vere non sono come al cinema, dove invece tutto è fatto a puntino. Il set è comunque ima meraviglia. I mujahed- din sono sparsi sul pianoro, accanto ai tank e ai blindati; e in queste giornate fredde la luce abbagliante del sole, che taglia l'aria come se la passasse con il lucido) li fa sembrare le comparse di Spielberg. I taleban stanno invece acquattati dietro la montagna, a un chilometro o poco meno. Ogni tanto i loro turbanti neri spuntano fuori da qualche costone come i funghi dopo la pioggia, ma dura solo un attimo. Un mujahed li guarda dentro il telescopio del suo fucile: «Prima o poi uno lo prendo», e fa un ghigno felice. Maidanshar non ha avuto finora un gran posto nella storia: le cronache la ricordano soltanto per l'incontro che, sei anni fa il comandante Massud ebbe con i taleban quando i mujaheddin stavano per essere travolti dal¬ l'avanzata degli inturbantati e Rabbani cerca¬ vano accordo. Ora i ruoli sono rovesciati, e i mujaheddin vittoriosi (non Massiid perché lui è morto) sparano addosso ai taleban in fuga, chiedendogli di arrendersi. Lo spettàcolo va avanti da domenica, ma non è un prodotto di serie B perché appena dietro la montagna sono asserragliate alcune migliaia di taleban - qual¬ cuno dice seimila - e se la battaglia infuria davvero allora qui succede il massacro che Mazar e Konduz già hanno conosciuto. Anche perché tra i -seimila c'è una buona quota di «arabi», e questi nessuno li vuole salvare. «Comunque li distruggiamo», assicura il comandante in capo Haji Shar Allam, e con la mano fa come se tagliasse l'aria. Uno se lo immagina un rambo afghano, tutto muscoli e barbone nero; ma sbaglia. A parte il fatto che Shar Allam se la prende comoda e arriva sul campo di battaglia come le prime donne, quando ci sono già tutti e manca lui soltanto, poi lui è uno basso e tracagnotto, appesantito dal panzone, porta un golf sotto la giacca perché qui fa freddo, e sotto la giacca e golf ha un camicione lungo fino alle ginocchia e la maglietta della salute. Sembrerebbe uno da «Armata Brancaleone», ma l'ossequio con cui viene trattato nobilita perfino il suo mocassino mezzo sfasciato. In sua assenza, comunque, lo spettacolo della guerra non è stato ad aspettare l'arrivo del protagonista. Le cannonate sono andate e venute con ima cattiveria che lasciava pensare come quelli che mettono il giubbetto antiproiet¬ tile e non siano poi del tutto vanesi. E' una battaglia vera, insomma; però l'aria che gira intorno è tanto rilassata che davvero sembra di stare dentro un film, i mujaheddin che fumac- chiano tranquilli, i loro ufficiali che prendono il tè, non un miliziano che sembri angosciato dal fatto che comunque stiamo combattendo, e allora uno approfitta del sole come se fosse a Cortina. Tra un botto e l'altro, il silenzio è rotto soltanto dal gracchiare fastidioso dei walkie- talkie: con la radiolina attaccata all'orecchio, i comandanti ascoltano il dialogo che, a un chilometro di distanza, si stanno scambiando gli ufficiali dei taleban. «Come stai, fratello? Passo». «Questa è caduta vicina. Passo». «Biso¬ gna prestare attenzione sul fianco destro. Passo». I mujaheddin fanno crocchio attorno alla radiolina, e ridono; sembra il film di Franco e Ciccio, dove nessuno sapeva più chi sono i nemici e chi gli amici. Ma quelli che si dicono «passo» e «passo» sono davvero due fratelli, si chiamano Golan Mohammed e Mussan Mohammed, e comanda¬ no i taleban; tuttavia uno non capisce bene perché Shar Hallam ce l'abbia tanto con loro, finché non viene a sapere che i due qualche tempo fa avevano accettato di passare con l'Alleanza e - per questo cambio di casacca - si erano messi in saccoccia 300 mila dollari. dimenticandosi però, subito dopo, che le pro¬ messe andrebbero mantenute. «Vedremo come finirà», dice Shar Hallam ai reporter che lo seguono dappresso e non si capisce se parla della cannonata che gli passa sopra la testa o del destino che lui riserva ai due truffatori; battaglie come questa non è che siano frequen¬ ti. Anzitutto, perché è come starsene al cinema o al teatro e vedersi lo spettacolo con la comodità della prima fila (qualche cannonata vale il prezzo del biglietto); ci manca solo un bibitaro a spasso tra i tanks. Eppoi, perché la tranquillità dei soldati, quasi la loro indifferen¬ za ai fatti, nonostante le cannonate e un assalto fallito alla montagna dove i taleban sono rifugiati, rivela un'abitudine naturale alla guer¬ ra che forse nessuna altra parte del mondo può permettersi. Abdel Khaim, il compagno di Qard Aga, si è perfino addormentato, steso sul blindato; e nemmeno i botti dei cannoni e Katiuscia riescono a svegliarlo. Ma tra la prima fila dello spettacolo e le montagne laggiù la battaglia non è soltanto lo scambio della cannonate: una figuretta fa la spola a piedi lungo la strada, con la sua coperta sulle spalle e il pakul in testa, portando i messaggi di una trattativa che potrebbe evitare lo scontro finale. I mujaheddin seguono indiffe¬ renti i viaggi di andata e ritorno, con il disprezzo di chi la guerra la fa davvero anche quando se ne sta a russare sotto le cannonate. Questi che ora fumacchiano, prendono il tè, o se ne vanno a spasso tra blindati e carri armati, sono poi la stessa gente che alcuni anni fa, quando aveva tra le mani un soldato sovietico, ;li tagliava con un sorriso naso e orecchie e poi o rispediva ai suoi compagni. La stessa gente, comunque, che in questi giorni tra Mazar-i-Sha- rif e Kunduz, scanna a freddo centinaia di nemici e scatena un'ondata di terrore fin dentro questo show alle porte di Kabul. Il messaggio che porta ai fratelli Mohammed che hanno truffato l'Alleanza è probabile che non parli soltanto di quel lontano giorno e del dovere di restituire i 300 mila dollari. Quando il generale Shar Hallam taglia l'aria con la mano e dice ai reporter: «Comunque li distruggiamo», sa bene che il tipo di missiva abbia trasmesso a quelli che sono acquattati dall'altra parte del costone; una missiva che certe notizie su Mazar e Kunduz la porta a chiare lettere: è la voce che dal walkie-talkie all'improvviso parla in arabo conferma il massacro prossimo ventu¬ ro. Poi però arriva l'una del pomeriggio, e di botto la guerra s'interrompe: è l'ora della preghiera, i cannoni vengono messi a riposare, rientrano i tanks, anche il messaggero se ne può tornare a casa. «Ci vediamo domani», dice ai reporter il ge¬ nerale con la panza, il golf, e la maglietta del¬ la salute. Ed è come se dicesse: domani si repli¬ ca. I cameramen ripongono le lo¬ ro attrezzature, quelli della tv con il giubbetto antiproiettile si rivestono in bor¬ ghese, Qard Aga si trastulla con uno stuzzicaden¬ ti. Poi sputa a terra. Sulla linea del fronte di Kunduz E' una battaglia vera, però l'aria che gira intorno è tanto rilassata che sembra di stare deniro un film I soldati dell'Alleanza che fumacchiano tranquilli, i loro ufficiali che prendono il tè, non uno che sembri angosciato dal fatto che si sta combattendo Il set è una meraviglia. I miliziani sono sparsi sul pianoro, accanto ai tank e ai blindati. In queste giornate fredde la luce abbagliante del sole li fa sembrare comparse di Spielberg I taleban stanno invece acquattati dietro la montagna, a un chilometro Alle sette di mattino il circo delle tv e dei reporter si prepara I mujaheddin li aspettano per cominciare a sparare Un cecchino dell'Alleanza con il fucile puntato contro le postazioni taleban 'SHHBHHH8HHBI - Sulla linea del fronte di Kunduz Convoglio sulla strada per Kabul

Luoghi citati: Cortina, Kabul