REPORTER A KABUL Chi dorme sul cemento chi viacda in elicottero

REPORTER A KABUL Chi dorme sul cemento chi viacda in elicottero LE DIFFICILI CONDIZIONI DI LAVORO DEI PROFESSIONISTI DELL'INFORMAZIONE .^...;,ì;.ìì..j-...ìj... REPORTER A KABUL Chi dorme sul cemento chi viacda in elicottero reportage limmo Candito Inviato a KABUL QUANDO un reporter va in guerra, non pensa di mo¬ rire. E'.soltanto il suo lavoro. Robert Capa, il più noto dei fotoreporter, un giomo disse: «Se vai in guerra sei come mio che va alle corse: puoi puntare su un cavallo, o te¬ nerti i soldi in tasca». Capa in Indocina puntò su un caval¬ lo, una mina lo fece a pezzi ai margini di una risaia. Lo seppellirono nel cimitero di Parigi, mandò le condoglian¬ ze anche il barista di una città lontana. Uno dei più grandi repor¬ ter americani, quando Saigon stava per cadere nelle mani dei vietcong, se ne scappò via. Scelse di non puntare. Lo incontravi in ogni retrovia a ubriacarsi di giniperiannega- rèirìl rimorso; con. la sua inutile puntata ancora in ta¬ sca. Il lavoro del reporter di guerra non è un mestiere dannato, ma impone sempre di scegliere. Sono scelte diffi¬ cili, perché talvolta il calcolo del rischio è al di fuòri di qualsiasi controllo. In Afgha¬ nistan, questa incertezza ha accompagnato spesso il lavo¬ ro dei giornalisti: lo è stato al tempo dei mujaheddin, quan¬ do l'avventura clandestina in un paese occupato dai sovieti¬ ci ti metteva sotto il tiro micidiale degli Mi-24 allo scoperto, privo di difese, an¬ gosciato dalla caccia che l'eli¬ cottero ti dava con i suoi infrarossi; lo è ora di nuovo, quando la fine dei taleban riporta il paese ài tempo del banditismo e della lotta fero¬ ce tra fazioni, e trascina in una vicenda agghiacciante, amaramente inutile, la vita di Maria Grazia Cutuli, Julio Fuentes, e i loro compagni. Questi due mesi di guerra in Afghanistan sono stati fra i più duri del nostro lavoro. Da una parte, il rifiuto dei tale¬ ban ad avere i giornalisti tra i piedi ha spinto il racconto della guerra in un terreno ambiguo, dove la cronaca di fatti sui quali era impossibile la testimonianza diretta dei reporter rischiava sempre di piegare alle manipolazioni della propaganda il dovere dell'obiettività e del distacco dalle fonti d'informazione. E questo è ormai il rischio più drammatico di un lavoro che, se perde il contatto con la realtà, snatura la propria identità, e si' condanna al¬ l'estinzione. Ma sono stati mesi duri anche per le òondizioni estre¬ me di lavoro. L'Afghanistan è uno dei paesaggi più affasci¬ nanti del pianeta, con le vette bianche del Karakorum alle spalle e grandi vallate che si distendono sull'altopiano asiatico; ma questo terreno - di montagna a strapiombo e di deserti pietrosi - frantuma la geografia in un reticolo di microterritori quasi impossi¬ bili da collegare, perduti al¬ l'interno di una società che è ancora quella del Medio Evo. Il lettore, lo spettatore, non sanno quasi mai nulla di come il reporter lavori in guerra: nelle cronache dei tg da questo paese hanno visto talvolta gli inviati che parla¬ vano tenendosi accanto una lampada a petrolio o un gene¬ ratore; ma non sanno molto di più. Non sanno, per esem¬ pio, che ieri queste righe sono state scritte a mano, alla luce di una candela, perché Kabul era senza energia elettrica; né sanno che molti di noi stiamo dormendo completa¬ mente vestiti in sacchi a pelo, dentro stamberghe cui viene concesso di avere, per ecces¬ so insopportabile di generosi¬ tà, il titolo di hotel. Né che, spesso, non abbiamo né ac¬ qua, né gabinetti, né luce elettrica. E se ci tocca di dormire per terra, sul cemen¬ to, dentro uno stanzone vuo¬ to, freddo, in sei, o anche in otto. Alfonso Rojo, vicedirettore di «El Mundo», Uno dei più grandi viaggiatori del nostro tempo, dice: «Julio Fuentes non era solo un compagno di giornale; eravamo come fra¬ telli, che si amano e si odiano come i fratelli veri, ma si trovano uniti dalle stesse pas¬ sioni e dalla stessa storia». Non tutte le storie sono uguali, naturalmente, né il tempo del racconto è sempre quello della prima linea. Co¬ munque, mentre molti dei reporter che tra settembre e ottobre avevano lavorato a Kojavaudin e Jalad Serage, in condizioni disperate di fred¬ do, di sporcizia endemica, di mancanza di cibo, ci metteva¬ no quasi un mese a raggiunge¬ re finalmente Kabul, la «si¬ gnora» della Cnn, Christiane Amanpour, in una sola giorna¬ ta volava da Londra a Du- shanbé, poi prerideva un eli¬ cottero (con il supporto presu¬ mibile degli Stati Uniti), atter¬ rava all'aeroporto di Bagram, trovava un'auto pronta, ed entrava nella capitale afgha¬ na con un viaggio comodo, facile, confortevole, che le consentiva di raccontare con piglio credibile una guerra di cui però aveva visto diretta¬ mente ben poco. Maria Laura Avignolo, cele¬ bre firma- argentina del «Clarin», diceva ieri: «Tra¬ sformare il giornalismo, e il giornalista, in una istituzio¬ ne, apre una deriva pericolo¬ sa, che può arrivare a cancel¬ lare l'indipendenza e la liber¬ tà del nostro lavoro». Diceva ieri Patrick Forri- stier, inviato de «L'Express», uno dei più noti corrisponden¬ ti francesi: «Raccontiamo una guerra, ma raccontiamo anche un pezzo di storia nel quale noi siamo, contempora¬ neamente, testimoni e prota¬ gonisti». In questi giorni i reporter che raccontano la guerra del¬ l'Afghanistan sono a Kabul, Jalalabad e Taloqan, e - dal Pakistan - a Peshawar, a Islamabad, a Quetta. Poche guerre sono state seguite con la stessa attenzione e lo stes¬ so impegno produttivo; due¬ mila giornalisti sono stati spiegati sul territorio, da più cfi due mesi, in un lungo e faticoso reportage che sem¬ brava dovesse finire con la liberazione di Kabul. Ma men¬ tre la guerra consumava len¬ tamente una sua fine negli ultimi assedi a -Kunduz e- a Kandaharv i quattro giornali¬ sti dispersi'npropongono l'in- terrógàtivò'di' fetido sui limi¬ ti - e le ragioni - di questo lavoro: «L'Afghanistan - dice John Simpson, il volto della Ebe dai campi di battaglia - è stata una delle più drammati¬ che storie del nostro tempo. Il dovere dei mass media era di saper rispondere a questa sfida». John Philips, che è stato uno dei tanti reporter dal Vietnam, racconta di quando partì per una missione con un plotone di marines. Uno dei soldati gli chiese quanto gli dessero di extrasoldo, per quel suo lavoro in guerra. Lui rispose: «Niente, è solo il mio lavorp». Il marine lo guardò perplèsso, poi disse: «Ma tu devi essere matto». Il marine sbagliava. Un giorno Giorgio Bocca disse: «Lo so perché voi fate i corrispondenti di guerra. Vo¬ lete dimostrare di essere i più bravi». Maria Grazia, Julio, i loro tre sventurati compagni lo stavano mostrando. Spesso nella capitale non c'è elettricità e bisogna scrivere alla luce di una lampada a petrolio. Si dorme vestiti nei sacchi a pelo non ci sono bagni e manca l'acqua Molti hanno impiegato giorni per arrivare qui Christiane Amanpour la «signora della Cnn» con l'aiuto degli Usa è atterrata direttamente all'aeroporto di Bagram dove un'auto l'aspettava Un cadavere sulla strada che dalia frontiera porta a Kabul. A sinistra il confine di Torkham chiuso