JALALABAD Nel campo di Al Qaeda

JALALABAD Nel campo di Al Qaeda TRA I CLAN DEI MUJAHEDDIN CE' GIÀ' ARIA D! GUERRA CIVILE JALALABAD Nel campo di Al Qaeda reportage limmo Candito inviato a JALALABAD NON è nemmeno finita una guerra - questa che il mon¬ do sta combattendo contro i taleban - e già una nuova guer¬ ra pare preparare i suoi canno¬ ni. Una guerra civile, stavolta, un'altra guerra di tutti contro tutti. Nel gran pasticcio di eser¬ citi e di milizie che si stanno spartendo l'Afghanistan, ora qui a Jalalabad tornano in cam¬ po le gelosie di potere, i vecchi contrasti, le divisioni di fazioni e di clan. E la città, che quasi non ha avuto il tempo di gustar¬ si il valore di questa sua libera¬ zione, si trova ora di nuovo con i miy aheddin che si guardano di brutto tra di loro, prendendo Eosizione nelle strade di Jalala- ad, spostando cannoni, dispu¬ tandosi aree di controllo, ini¬ ziando un braccio di ferro che finora non è diventato una. bat¬ taglia soltanto perché l'ultima buona volontà tiene a freno i furori che bruciano dentro lo stomaco di questi eserciti. La storia pare volersi riscrivere: quando i mujaheddin buttarono fuori dal loro paese le truppe dell'Armata Rossa, nel '90, non ci fu nemmeno il tempo per darsi un abbraccio, e già nelle strade di Kabul i cannoni torna¬ rono a dividere le armate della guerriglia. La capitale venne distrutta, ci furono decine di migliaia di morti, al confrontò la guerra contro i sovietici par-, ve una scaramuccia. E arrivaro¬ no i taleban. Oggi i taleban sono in rotta, stanno scappando verso le mon¬ tagne; ma qui, nel vecchio pa¬ lazzo del governatore, cinque comandanti sono riuniti da due giorni a trovare un punto d'ac¬ cordo e l'accordo non arriva. C'è scappato qualche colpo di kalashnikov, qualche spintone brusco, e i nervi erano tirati dal digiuno che il Ramadan impone da ieri ai fedeli dell'Islam; sem¬ bra un insopportabile parados¬ so dire che ce un brutto clima di tensione, in un posto dove la guerra domina ancora la vita quotidiana. Ma i cinque hanno il loro orgoglio da difendere, i loro eserciti, e il loro progetto di potere. Sono nomi famosi: Haji Dee Mohammed, H^ji Zaman, Haji Alludali Kadir, Gagi Amin, Nasrallah Ali, autentici «signori della guerra». E al ritomo alla vecchia pratica delle guerre che vengono combattute per conto d'altri, gli americani, i pakista¬ ni, i russi, in un gioco di strate¬ gie che trova nello spirito triba¬ le dell'Afghanistan un terreno straordinariamente fertile. Jalalabad continua comun¬ que a celebrare la sua speranza, e tocca ferro. Sul muro grigio del carcere, un muro scrostato, rosicchiato da topi bulimici, il foglio di carta da pacchi è appe¬ so a un chiodo arrugginito. Dice poche parole: «Tutti i detenuti sono liberi. Firmato II Diretto¬ re». La firma manca, ma viva la libertà. La pace è però una storia assai più complicata della firma di un direttore che manda a spasso i pensionanti del suo carcere. Prendiamo la vecchia questione delle donne. Si diceva: che bestie i taleban, che le tengo¬ no segregate e le costringono a indossare il burqa. Ora i taleban non ci sono più, ma Jalalabad liberata è una città disperata¬ mente di soli uomini; per incro¬ ciare in strada una donna c'è voluta l'intera giornata, era qua¬ si il tramonto, e lei, la poveretta, naturalmente indossava il bur¬ qa. Viva la libertà. Dure che questo è un mondo di uomini fa capire poco della segregazione afghana; Può an¬ che essere che a Jalalabad ci sia la gente normale, quelli che al mattino vanno al lavoro e la sera tornano a casa; ma quanto si vede qui in questi primi giorni di liberazione sembra soltanto una guerra in tempo di (quasi?) pace. Qui si nasce con un fucile in spalla, tutti sono armati: la gran parte ha un solo kalashnikov, però non è affatto raro trovare qualcuno che se ne vada in giro con due o tre kalashnikov e magari anche con un lanciagranate più un paio di razzi, e sembrano piazzi¬ sti di Rpg in campagna promo¬ zionale. Per non dire poi delle loro facce: questi sono gli stessi - o comunque i loro fratelli minori - che ai soldati sovietici di Breznev taghavano naso e orecchie con colpi netti di coltel¬ lo, e ridevano anche. In Afghani¬ stan la guerra non finisce mai, è la stessa storia di questo popo¬ lo. Come la sua crudeltà. Ki¬ pling raccontava del consiglio che un veterano di queste parti dava a un suo giovane commili¬ tone del 730 Reggimento FucUie- ri: «Se gli afghani ti feriscono e ti resta ancora un soffio di forza, gira la canna del fucile verso di te e ammazzati. Ma non farti prendere vivo». Tra questa gente non pare difficile capire perché uno co¬ me Osama bin Laden si trovi a suo àgio. E proprio da queste parti aveva un gran numero di suoi campi: «Lui, ci veniva spesr so qui», dice Khalil, che ha studiato a Peshawar e ora traffi¬ ca in auto e armi. Ma dice che non gli piace troppo: «Questi arabi sono insopportabili, se la danno da gran padroni». Il campo è uno spiazzo di terra polverosa tra montagne ruvide di granito. Se non fosse per quei quattro cannoni arrug¬ giniti e un vecchio blindato da sfasciacarrozze, potrebbe anda¬ re benissimo come campo di calcio del girone d'Eccellenza, che sono quei campionati dove sotto i tacchetti non c'è nemme¬ no un filo d'erba. I costoni rocciosi lo circondano stretti, e su ogni cresta di montagna c'è ancora la canna di un'antiaerea che spezza il profilo del cielo. Era difeso come un Fort Khox, ma a vederlo non se ne capisce troppo la ragione, con il suo spiazzo brullo, le grotte scavate nella montagna, le casupole di fango dove s'allenavano i terro¬ risti, la luce abbaginata che ne taglia il silenzio e lo squallore. «Ci arrivavano a gruppi di tren¬ ta, e facevano una vita ritiratis- sima. Nessuno li vedeva mai», dice un vecchio con la barba bianca che abita nel mucchio ammassato di case grige. E non dice il proprio nome. Forse tutti quei cannoni puntati verso il cielo servivano a difendere, in realtà, un altro progetto degli «arabi»: la realizzazione di un laboratorio per armi chimiche. Stava dall'altra parte del costo¬ ne roccioso, in uno spiazzo verde con quattro o cinque case basse: un missile Cruise le ha centrate nel primo giorno di guerra (quel lontanissimo 7 ot¬ tobre), e ora sono mucchi anoni¬ mi di macerie. I documenti trovati ieri a Kabul, che pare raccontino di armi atomiche e di guerra batteriologica) potreb¬ bero anche avere qualche con¬ nessione con queste macerie. Ma il benzinaio che vive dall'al¬ tra parte dell'invaso dove si specchia il presunto «laborato¬ rio» si gratta la barba e scuote la testa: «Mah, di armi chimi¬ che non s'è visto proprio niente. C'è stato un botto, le case sono crollate, e tutto è finito». Il ragazzo che vende frutta da un banchetto che sta lungo la strada, di fronte al benzinaio, gli «arabi» se li ricorda bene: «Erano sfrontati, sempre sgar¬ bati. Non parlavano nemmeno. Chi erano? Soprattutto palesti¬ nesi». E la guerra chimica? Il ragazzo guarda stupito: «Chimi¬ ca, che significa?» e ride, come chi si sente preso in giro. La guerra ognuno la vive a modo suo. Nel piccolo cimitero di campagna - un muretto di fango e due tumuli di terra fresca - i parenti di Abdul Haq, che hanno appena liberato que¬ sta città, vengono a pregare' sulle due tombe: quella del comandante dei mujaheddin, e quella del nipote, uccisi dai taleban. Per poter venire a pian¬ gere i loro due morti, hanno dovuto buttar fuori da Jalala¬ bad! taleban. Nelle caverne degli «arabi» è tutto distrutto, quello che potrebbe essere stato un laboratorio per costruire armi chimiche era stato sventrato dalle prime bombe l'8 ottobre La tecnologia cede alle necessità: un gruppo di soldati americani cavalca a fianco dei mujaheddin dell'Alleanza del Nord

Persone citate: Abdul Haq, Breznev, Cruise, Gagi Amin, Haji Alludali Kadir, Haji Dee Mohammed, Nasrallah Ali, Osama Bin Laden, Zaman

Luoghi citati: Afghanistan, Kabul