ARRIVANO INOSTRI Le guerre difficili degli italiani

ARRIVANO INOSTRI Le guerre difficili degli italiani ARRIVANO INOSTRI Le guerre difficili degli italiani analisi Q'LIitaUani e la guerra: inutile far finta di niente. ' «Chiha ricercato la storia d'Ita¬ lia senza appagarsi della superfi¬ ciale e convenzionale cognizione che se ne somministra nelle scuo¬ le - scriveva Benedetto Giòce nel 1917 - non ignora che una delle taccie più antiche e persistenti, anzi la principale e quasi unica taccia data agli italiani dagli altri popoli d'Europa, e specie dai fran¬ cesi e dai tedeschi, era quella di "imbelli"». U linguaggio crociano suona senz'altro superato. Chi oggi di¬ rebbe più «taccia» al posto di «imputazione»? E sebbene Fini, l'altra settimana, abbia definito «imbelle» il povero Granducato di Lussemburgo, l'aggettivo è irri¬ mediabilmente desueto. Ma alla vigilia della campagna d'Afghani¬ stan la sostanza aelm constatazio¬ ne di don Benedetto rimane stra¬ ordinariamente attuale: è opinio¬ ne comune che gli italiani non siano fatti per la guerra, non la sappiano fare, e quando la fanno danno il peggio. Pur ribellandosi a questa visio¬ ne, Croce ne rinveniva l'origine molto indietro nel tempo. A certe antiche dispute medioevali, quin¬ di alla gioiosa meraviglia con cui nel quindicesimo secolo gli eserci¬ ti francesi calarono in Italia sen¬ za trovare alcuna resistenza; e ancora alla fine del Settecento, la stessa comoda sorpresa sugli ita¬ liani imbelli. «Una nazione ben snervata e vile» pare l'avesse giudicata Napoleone, cui pure si attribuisce una frase opposta: «Gli italiani saranno un giorno i primi soldati d'Europa». Un giorno, appunto. Mai oggi. Nel frattempo valeva la regola fissata nel drastico paradosso di Erasmo da Rotterdam: il colmo dell'assurdità è l'italiano bellico¬ so Udtalus bellax»). E tuttavia Croce si ribellava con forza a quella «taccia» destinata a ripre¬ sentarsi sotto varie forme fino ai nostri giorni. Fino alla nave che porta i bersaglieri in Libano e non le si apre il portelione, oppure va in avaria; fino al carrarmato del¬ la classe «Ariete» che nella dimo¬ strazione alle Commissioni Dife¬ sa di Camera e Senato fa click invece die bum; fino all'indimen¬ ticabile ammiraglio Buracchia che, appena arrivato in Iraq, con¬ fida al giornalista di Famiglia cristiana: «Eh, con un pò di saggezza questa guerra si sareb¬ be potuta evitare...»; fino all'in¬ crociatore «Vittorio Veneto» tragi¬ comicamente arenatosi nei bassi fondali del porto di Valona. Era l'aprile del 1997, e con qualche soUievo si è letto ieri che non rientra, quella nave da guerra. nelle offerte del ministro della Difesa agli Usa. E tutto questoper restare a ridenti pag pseudobemche, inno¬ cue figuracce militari, perché ov¬ viamente c'è anche dì più e di peggio: la presunta vocazione ita¬ liana al giro di valzer, se non al tradimento; l'ipotetica disponibi¬ lità alla fuga, siila ritirata confusa e disordinata per salvarsi la pelle, se non alla vigliaccheria. Bene. Croce concluse quel suo dotto articolo in cui ribaltava le accuse, una per una. Aveva tutti gli esempi e le ragioni per farlo. E lo inviò al Giornale d'Italia. Era, come si accennava all'inizio, il settembre del 1917.1 quotidiani avevano tempi di lavorazione molto lunghi, ma quell'articolo non uscì mai perché nel frattem¬ po le armate austro-ungariche avevano sfondato a Caporetto. Una rotta entrata addirittura nel linguaggio, oltre che nella memo¬ ria. Una catastrofe bellica che sul momento gli Stati Maggiori, con straniante ipocrisia - e anche vanificando i nobili scrupoli di Benedetto Croce - vollero defini¬ re: «Deficiente resistenza di alcu¬ ni reparti». Vecchio trauma, lungi però dall'essere stato superato. Storia antica, ma sempre ben alimenta¬ ta in Europa secondo il vecchio detto: «Les Italiens ne se battent pas», gli italiani non si battono, come pare abbia sostenuto una volta il Thiers. Invano si potreb¬ bero menzionare migliaia di atti di valore e di eroismo dei soldati italiani, il loro coraggio, il loro spirito d'adattamento e di sacrifi¬ cio. Invano a quel motto liquidato- rio si potrebbe contrappoire ciò che prima e dopo Caporetto scrìs¬ se un nemico come l'Arciduca Giuseppe di Asburgo-Lorena: «E gli italiani? Giù il cappello. Lotte selvagge e disperate hanno luogo fra noi e loro, e soltanto la morte parla. Gli italiani vengono all'as¬ salto in masse compatte e subisco¬ no perdite indescrivibili: si fanno macellare in massa, ma pure con¬ tinuano finché pochi uomini ri¬ mangono in piedi». Gli intrepidi Sardi; i lupi di Toscana; e gli alpini: «Hut ab ver den Alpini», giù il cappello davanti agli Alpini sul Monte Nero. Ma giù il cappello - ci piacereb¬ be sentir dire - anche di fronte alle più belle e tragiche pagine della Seconda Guerra Mondiale, valorose sconfitte, sangue italia¬ no rappreso su neve e sabbia: la carica del Savoia Cavalleria in Russia, la resistenza di El Ala¬ mein, la scelta di Cefalonia. E invece no. Restano impresse nel¬ la memoria quelle formule doloro¬ samente sbeffcggiate: «Vincere», «otto milioni di baionette», «spez¬ zeremo le reni alla Grecia», «li respingeremo sul bagnasciuga»... Vera e falsa al tempo stesso, l'imputazione «quindici volte se¬ colare», come diceva Croce, sul¬ l'inadeguatezza bellica degù ita¬ liani continua ad aleggiare come una specie di incantesimo pacifi¬ sta suo malgrado; qualcosa di complicato che mette in causa un misto di timore e saggezza, furbi¬ zia e buon cuore, consapevolezza dei propri limiti e ambiguità, melodramma e scoppi d'ira. Dieci anni orsono, ai tempi della guerra del Golfo, il senti¬ mento nazionale anti-gueniero s'incarnò brevemente ma con in¬ dimenticabile intensità nella vi¬ cenda pubblica e privata al tem¬ po stesso di un pilota di caccia¬ bombardiere che, abbattuto alla prima missione (gli altri aerei erano rientrati per impicci di rifornimento in volo), venne fatto prigioniero e debitamente mo¬ strato in tv, tutto pesto, poverac¬ cio. In realtà i piloti abbattuti era¬ no due, ma il maggiore Bellini riuscì a non parlare ed ebbe per questo l'encomio. Così, nel nel mezzo dello psicodramma, l'at¬ tenzione fu tutta per il capitano Cocciolone. Il fantastico cogno¬ me-in seguito celebrato anche in unrap del gruppo «Assalti fronta¬ li» che faceva: «My nome is Coc¬ ciolone Z pilota d'aviazione» - sembrava fatto apposta per susci¬ tare ondate di mammismo e batti¬ cuore, donne in nero ed Emilio Fede che intratteneva i parenti, il tutto in un tripudio che non passò inosservato all'estero; tan¬ to più considerando che l'Italia aveva ofiferto a «Desert Storm» otto caccia della classe «Torna¬ do», oltre la nave dell'ammiraglio Buracchia. Oggi può essere considerata secondaria la circostanza che, una volta tornato in patria e accolto con trepidante sollievo come eroe del lieto fine, Cocciolo¬ ne vendette l'esclusiva delle foto del suo matrimonio. Dopo tutto era nel suo diritto, e come soldato il suo dovere l'aveva fatto. Meno secondario è da ritener¬ si il fatto che quando un giornali¬ sta inglese - che in questi casi non manca mai - fece notare l'esigui¬ tà del contributo militare italiano contro Saddam Hussein, l'allora presidente della Repubblica Cos- siga, che a quei tempi era assai preso anche da una sottilissima disputa da lui stesso sollevata su chi dovesse comandare in caso di guerra, disputa sulla quale una certa «Commissione Paiadin» sta¬ va arrivando a conclusioni a lui poco gradite, insomma, Cossiga disse che quel reporter britanni¬ co lì era un figlio di buona donna. Il Capo dello Stato lo disse con un complesso giro di parole, ma la conferma del nervo scoperto ri¬ sultò in tal modo ancora più evidente. Lo stesso Cossiga era diviso al suo intemo: come cattolico era contro la guerra; come presiden¬ te favorevole. Anche in questo la classe politica italiana offre pre¬ clari esempi d'indecisione. Senza riandare a Giolitti, che per moti¬ vare la sua contrarietà all'inter¬ vento, spiegò a Salandra che «in Libia si era vinto soltanto quando eravamo dieci contro uno» (frase poi smentita sdegnosamente, con carteggio sulla Stampa), conver¬ rà qui ricordare che appena elet¬ to Pertini disse: «Si svuotino gli arsenali, si riempiano i granai»; e che una volta, senza preavvertire il governo, disse in un messaggio televisivo di fine d'anno che i nostri soldati dovevano tornare dal Libano. Tenerceli, confermò il segretario De De Mita conver¬ sando con i giornalisti dai bordi di una piscina, era «una follia». Vero è che la classe dirigente fascista ebbe meno dubbi di tutti sulle attitudini guerriere degli italiani, e poi sé visto com'è andata a finire. Per certi versi, la pedagogia arditesca e dannunzia¬ na, a base di «Eja eja alala!», «Memento Audere Semper», «Osa¬ re l'inosabile», «Ardisco e non ordisco», «Me ne frego» e così via, ha reso il peggior servizio ad ogni ipotetico e superstite orgoglio mi¬ litare. Non bastasse Caporetto, infatti, è arrivato anche il trauma dell'otto settembre, anch'esso vis¬ suto con tale violenza da divenire una metafora d'insicurezza caoti¬ ca, un modo di dire; una pietra nera e pesante che gli stessi italia¬ ni si erano deposti sulle spalle a suggello della propria insufficien¬ za, della propria vergogna. La Resistenza, probabilmente, non è bastata a riscattare l'onta. Persa la guerra, la si è messa sul conto del fascismo e di Musso¬ lini. Tutta loro la sconfitta; solo loro il tracollo militare e naziona¬ le. Ma questo artificio, questo spostamento in qualche modo terapeutico, questo scambio sim¬ bolico ha fatto sì che gli italiani, nel loro intimo, cominciassero a coltivare una curiosa disistima per le loro stesse virtù guerriere. «Non v'è altro popolo -ha scritto su Limes Sergio Romano in un saggio significativamente intito¬ lato "Perché gli italiani si disprez¬ zano" - in cui l'odio di sé sia radicato e diffuso sino al punto da diventare gioco, vezzo, insop¬ primibile meccanismo mentale e verbale». Forse anche arte e in¬ trattenimento, occorre aggiunge¬ re: si pensi a tanti bei film, da «La Grande Guerra» a «Mediterra¬ neo» dove i soldati italiani fanno guai, fanno ridere, fanno piange¬ re, fanno l'amore, ma non fanno la guerra. Questa latente e perfino creati¬ va autodenigpzione - davvero inimmaginabile ai tempi di Bene¬ detto Croce - andava a genio a una classe politica, di matrice per lo più cattolica e comunista; due culture dee per loro natura e vocazione accomunate da senti¬ menti anti-risorgimentali e co¬ munque pronte a rileggere la storia patria come una sequela di sconfitte, ribellioni, repressioni, date infauste e carneficine. Tutto questo, oggi, non c'è più. Cosa lo abbia sostituito non è affatto chiaro. Anche per questo la campagna italiana d'Afghani¬ stan è un incognita nell'incogni¬ ta. «Il colmo dell'assurdo è l'Italiano bellicoso» ^ sentenziava Erasmo da Rotterdam Da Caporetto al capitano Cocciolone breve storia del tricolore al fronte Nella foto grande Vittorio Gassman, Silvana Mangano e Alberto Sordi ne «La Grande Guerra» di Mario Monicelli In aito, una scena dal film «Mediterraneo» di Gabriele Salvatores