I creativi non fanno carriera

I creativi non fanno carriera I creativi non fanno carriera RECENSIONE Ermanno Bencivenga M AX Weber ci ha inse¬ gnato ad associare il capitalismo con l'eti¬ ca protestante, fonda¬ ta sulla fiducia nelle proprie forze, sul lavoro indefesso, sulla frugalità e sulla pianificazione razionale, e tesa al consegui¬ mento di un successo che è anche prova indiscutibile della grazia divina. Forse una volta le cose andavano davvero così; forse è davvero su questa mora¬ le austera, limpida ed esigente che industriali e mercanti han¬ no costruito le loro fortune. Ma oggi la situazione è ben diversa. Ce lo spiega Robert Jackall nel suo Labirinti morali. Il mondo ambiguo dei manager, dove ar¬ riva in proposito a conclusioni sconfortanti. Elenco le principali. La piani¬ ficazione aziendale è un rito ozioso, che produce "congetture più o meno campate in aria". Quello della razionalità è un lessico di comodo, che stende un velo di rispettabilità su atteg¬ giamenti spesso impulsivi e arbi¬ trari. Il duro lavoro non serve: se un manager trascorre ore e ore in ufficio è soprattutto per "avere un po' di sollievo dall'an¬ sia di essere responsabile di qualcosa che non può controlla¬ re", e comunque in ufficio fa tutt'altro che lavorare in modo profìcuo. Le sue ore sono passa¬ te in "rapide consultazioni sul da farsi e interminabili riunio¬ ni, nella stesura e nella dettatu¬ ra di note stringate e piuttosto schematiche, nella costante at¬ tenzione alle oscillazipni dei mercati, nel brainstorming alla ricerca di nuove idee" e via dicendo - le strategie per perde¬ re tempo sono infinite. Non c'è infatti bisogno di preoccuparsi dei risultati: "una volta superati certi passaggi cruciali della car¬ riera, successo e fallimento sem¬ brano avere scarsa attinenza con ciò che l'individuo realizza effettivamente". Né sembrano contare le doti più ovviamente legate a una simile capacità di realizzazione: "le persone creati¬ ve non fanno carriera" e "una delle cose più dannose che si possano dire di un manager è che sia brillante". Contano inve¬ ce la totale acquiescenza ai capi, la "flessibilità" nell'adattar- si a qualsiasi sommovimento nelle gerarchie di potere, l'omer¬ tà nel proteggere gli interessi dei colleghi. Quanto alle decisio¬ ni, meglio non prenderle affat¬ to, perché se si rivelano giuste il merito se lo assumono i vertici dell'azienda e se si rivelano sbagliate le si paga care: meglio dunque aspettare che le circo¬ stanze impongano una certa scelta, che a quel punto non è più una scelta e non comporta più alcuna responsabilità. Come si è arrivati a un simile stravolgimento degli ideali di partenza, sui quali comunque si insiste nella retorica di faccia¬ ta? La risposta è implicita in un paio di parole che ho usato qui sopra: "sommovimento" e "an- .sia". "Le gerarchie aziendali vi¬ vono pressoché in continuazio¬ ne in acque agitate"; la vita di queste organizzazioni "non ha soltanto carattere di contingen¬ za ma è dominata dal capriccio", dalla casualità, dall'imprevisto. Pervase da incessanti, comples¬ se lotte di potere, le corporation sono teatro di repentine ascese e bruschi crolli, e i manager sanno che chi ascende o crolla porta con sé i propri amici, dunque la loro preoccupazione principale è quella di scrutare l'ambiente sociale Che li circon¬ da e le sue rapide evoluzioni. Nel frattempo, conviene non esporsi e mettere tutti a proprio agio, il che comporta non pren¬ dere posizioni nette, parlare un linguaggio vago ed eufemistico, non mettere mai in rilievo gli errori altrui. Quanto ai propri, l'importante è scappare in tem¬ po: cambiando frequentemente ufficio è assai probabile che siano altri a ereditare le conse¬ guenze dei nostri passi falsi. Che così facendo si finisca per produrre meno non importa a nessuno: "l'intero processo pro¬ duttivo è una scocciatura" che non aiuta a ottenere privilegi e promozioni. A Dio questi calvinisti d'accat¬ to hanno sostituito presidenti e amministratori delegati, ed è il loro favore che conta: il fatto di averli amici. Non c'è dunque da stupirsi che "la corporation sem¬ bri a molti una struttura costrui¬ ta con mezzi di fortuna, che ricorda le passerelle appoggiate su impalcature di diversa altez¬ za, che quando le si osserva da una certa distanza nella calura estiva sembrano rilucere e tra¬ ballare su strisce di sabbia". Il problema qui è metafisi¬ co: chiusi nel loro universo aziendale, i manager si costrui¬ scono una realtà fittizia e "sono spesso scarsamente inte¬ ressati ai fatti quali normal¬ mente concettualizzati". Tra i fatti normalmente intesi ci sono anche i criteri morali applicati nella vita comune, cui i manager sostituiscono giudizi "tecnici" che hanno come unico orizzonte quello dell'azienda. (Esempio: occor¬ re ristrutturare la produzione del cotone per evitare che la polvere faccia ammalare gli operai di bissinosi? Risposta: solo là dove la spesa della ristrutturazione è compensata dai risparmi che essa rende possibili). Quale può essere il rimedio per tanta cecità? "L'opinione pubblica rappresenta uno dei controlli più efficaci dell'im¬ pulso burocratico a trasforma¬ re qualsiasi questione morale in preoccupazioni esclusiva¬ mente pratiche". Quindi anche il libro di Jackall svolge un'im¬ portante funzione, mostrando¬ ci il re in tutta la sua scandalo¬ sa nudità; l'esistenza stessa di un libro simile è un fatto politico. I manager, che non sono stupidi, lo sanno benissi¬ mo, e questo ha influito pesan¬ temente sulla preparazione del libro e sulla sua struttura. Trentasei corporation han¬ no dato risposta negativa alla richiesta di Jackall (professo¬ re di sociologia al Williams College, nel Massachusetts) di studiarle. Solo tre hanno accet¬ tato, determinando un campio¬ ne molto ridotto e (direbbero i critici) assai poco rappresenta¬ tivo. Jackall ne è consapevole, e infatti "non può dire di aver seguito dei procedimenti stret¬ tamente scientifici". Ai nume¬ ri ha sostituito la profondità di analisi: il suo libro è ricco di descrizioni dettagliate di casi e individui particolari, dei lo¬ ro problemi specifici e di come in concreto li hanno affronta¬ ti. Siccome manager e corpora¬ tion vi compaiono sotto pseu¬ donimi di fantasia, il risultato somiglia curiosamente più a un'opera di narrativa che a una ricerca scientifica. O forse no: forse dovremmo smetterla di contrapporre queste due forme di ricerca della verità, e renderci conto che chi passa lungo tempo a osservare con attenzione il comportamento dei suoi simili, e distilla la sua esperienza in un racconto arti¬ colato e illuminante, contribui¬ sce alla nostra conoscenza tan¬ to quanto chi snocciola cifre. Un sociologo studia i «Labirinti morali» dei manager: successo e fallimento sembrano avere scarsa attinenza con ciò che un individuo realizza effettivamente; contano di più l'acquiescenza ai capi, la flessibilità nell'adattarsi alle gerarchie del potere, l'abilità di non decidere Robert Jackall Labirinti morali frad. di Piero Arlorio. premessa diF. Ferrarotti, Comunità, pp. 338, L 48000 SAGGIO

Persone citate: Ermanno Bencivenga, Ferrarotti, Jackall, Piero Arlorio, Robert Jackall

Luoghi citati: Massachusetts