Il re che cena ai Café de Paris di via Veneto

Il re che cena ai Café de Paris di via Veneto UNA PICCOLA GORTE E PICCOLE MANIE PER NON DIMENTICARE IL PASSATO Il re che cena ai Café de Paris di via Veneto Le giornate di Zahir Shah, l'ex monarca che da 28 anni vive a Roma un doppio esilio, dall'Afghanistan e dall'Italia. Stessa sartoria di Berlusconi, ma evita le soirées eleganti nei palazzi dell'aristocrazia personaggio AldoCazzullo ROMA 'T1 UTTO è dato nel vortice dei A possibili, persino che l'anziano signore che fino a poco fa mangiava saltimbocca e cicoria ripassata dentro la vetrinetta su via Veneto del Café de Paris, sotto il neon blu con la scritta «Il caffé della dolce vita», schizzando caricature dei passanti, sia Mohammad Zahir Shah Almutawakil-Alalah, «Colui che ripone la sua fede in Allah»; da 68 anni legittimo re degli afghani, da 28 anni in esilio, e da tre settimane l'uomo su cui l'Occidente punta per dare all'Afghanistan pace e governo. E' andata così. Quando, perso il regno, cominciò a farsene una ragione e a rifarsi una vita a Roma, il sovrano pregò i cortigiani rimasti fedeli di informarsi discretamente sui luoghi dove avrebbe potuto praticare il suo hobby: la caccia alla gazzella del Pamir, rarissima specie endemica chiamata dai nativi «marcopolo», che usava inseguire a cavallo spingendosi su altipiani sopra i quattromila metri e distanziando anche gli uomini del seguito (come ricorda con gli occhi lustri uno di loro). Gli fu risposto che fino a qualche anno prima il presidente Saragat organizzava battute di caccia - al cinghiale però - nella tenuta di Castelporziano, ma che ormai non usava più. Era però possibile praticare il golf, il tennis e il cannottaggio, in alcuni circoli sul Lungotevere. Il sovrano visitò i luoghi, trovò anche, vicino al ministero della Marina, una palestra dove fece là tessera e che frequentò a lungo per mantenere in forma il suo fisico atletico, ma valutò che, dopo aver stretto la mano a Eisenhower, Krusciov e Kennedy (e aver ricevuto denari da tutti e tre) non avrebbe potuto porgerla a chirurghi estetici, atto¬ ri o pohtici italiani. Abituato a frequentare molto in alto o molto in basso, a invitare nelle sue tenute famiglie regnanti o turisti occidentali incontrati per caso nelle vie di Kabul, a Roma scelse l'esilio due volte. Dalla sua patria, e dalla città che lo ospitava. Dal regno, e dal se stesso che era stato. Re Zahir non ama i ristoranti del centro, i ricevimenti in ambasciata, le soirées nei palazzi dell'aristocrazia. Frequenta però volentieri le trattorie sul lago di Bracciano, ad esempio la Grotta Azzurra, dove ordina filetto di coregone (detesta il pesce di mare, dice che non è abituato) al tavolo riservato di solito a Franca Valeri o a Tullio Solenghi. Oppure si fa portare a casa, nella villa all'01giata, tre pizze per sé, la regina Homaira e il nipote prediletto Mustafà, con un'unica raccomandazione: che la mozzarella sia di bufala. Depreca l'assenza a Roma di un ristorante afghano, ma ama la cucina italiana, e non solo. Re Zahir ama l'Italia. Alla sua reggia di Darulaman aveva dato le forme del rinascimento toscano. Adesso guarda Novantesimo minuto sul grande televisore al plasma a parete (oltre alla Cnn, alla Bbc e ai network arabi intercettati dalla grande parabola sul tetto). L'amore per l'Italia gli è stato fatale. Quando suo cugino Mohammed Daud, cui aveva dato la sorella in sposa e la guida del governo, gli strappò il potere a Kabul e proclamò la Repubblica afghana, lui era a Ischia, a fare i fanghi. Vi è tornato spesso, a curare la lombaggine. E' stato anche a Firenze, Capri, Napoli. E a Pompei, a inseguire la passione per l'archeologia. I suoi rari amici italiani erano tutti orientalisti o archeologi. Come lo scomparso Giusep3e Tucci, che conosceva bene 'Afghanistan. O Pio Filippani Ronconi, già nelle SS itahane, uno dei massimi indologi viventi e tra i pochi ammessi alla tavola del re; «forse - sospetta - perché non siamo in molti a poter reggere una conversazione in darì, la "lingua di corte", come gli afghani chiamano il persiano». Zahir Shah infatti non parla una parola di italiano. Lo capisce, però. «E' molto colto - racconta Filippani -, ha un grande interesse per la filosofia, non solo per quella islamica». I commessi della libreria francese vicino al Senato l'hanno visto per anni sceghere tra i saggi di storia (l'ultimo, una biografia di Enrico IV), i Mémoires (a un inviato del New York Times confidò di aver molto apprezzalo quelli di Kissinger), e i trattati sulla mitologia greca e latina. Nel centro di Roma non è molto a suo agio: «Se mi lasciassero da solo, mi ci perderei» ammette. Però gli piace molto via Veneto. Cena al Café de Paris. Si fa confezionare i doppipetti e i completi blu tre bottoni da Caraceni, la stessa sartoria di Berlusconi (alla cravatta, però, il sovrano preferisce il cachecol). I camerieri di Doney's raccontano di averlo visto arrivare spesso, al mattino o alla sera, un tempo su una Cadillac, ora su una Jaguar, sempre con autista. Si siede all'aperto, ordina un cappuccino, sfogha il quotidiano preferito. Le Monde. Osserva la gente che passa. E si diverte a disegnarla. Quan¬ d'era sul trono, e Time (1965) scriveva di lui che «può afferrare la trota più sfuggente dell'Hindi! Kush, gettarsi giù con gli sci da una discesa innevata a sessanta miglia l'ora, centrare due pernici con la precisione di un campione di tiro al piattello», coltivava anche due passioni sedentarie: gli scacchi, e la pittura. A scacchi continua a giocare, anche su una scacchiera elettronica («sfido sempre mio cugino ma non sono mai riuscito a batterlo» racconta indicando il generale Wall, ex capo dei servizi segreti afghani, ex detenuto in una cella sotterranea dai golpisti, ora fedele compagno di esilio). Di dipingere, ha smesso. Tracciava miniature e acquerelli, uno è appeso al muro della villa, è un'al egoria della vita umana, raffigura due donne, una giovane e formosa, l'al¬ tra vecchia e scheletrita, in mezzo un ruscello, molto molto stretto. Poi la cataratta è peggiorata, la mano si è appesantita, il tratto ispessito. Per tenersi in esercizio, il re ha preso a disegnare caricature. Dei passanti di via Veneto, appunto. Dei potenti che ha incontrato negli anni di regno. Dei personaggi che hanno frequentato la sua cattività romana. La scelta dei soggetti è ampia. Ministri sovietici e capi mujaheddin (uno dei quali, sfuggito all'Armata Rossa, rovinò per le scale di casa e finì in clinica), parlamentari del Congresso e diplomatici arabi, Shevardnadze e Hammer, l'americano che tramò con i bolscevichi, principi sauditi e Margherita Boniver, trafficanti e sicari. Il sicario era portoghese, si chiamava José Paulo Santos De Almeida, carpì la fiducia dei cortigiani presentandosi come giornalista, dopo un'ora di intervista porse al re un coltello dal'impugnatura d'argento come fosse un regalo, ma d'improvviso vibrò tre colpi con la lama ricurva lunga trenta centimetri. Zahir Shah si protesse con le mani, intervennero il generale Wali, i carabinieri, un bravo chirurgo. La sera il ministro dell'Interno Scotti andò in ospedale a trovarlo e uscendo dichiarò: cose tra afghani (forse per rimediare, Cossiga lo invitò al Quirinale). Zahir Shah si salvò, e cambiò casa. Lasciò la Cassia, il panorama sui prati e e greggi che amava, l'ombra di un'altra esule un tempo ospite della villa, la regina Federica di Grecia, che lo affascinava, il rumore dell'elicottero del suo vicino Kashoggi che detestava, e venne all'Olgiata. Sulla Cassia aveva quattro camere da letto. La nuova casa è ancora più piccola, un piano con una mansarda cui si sale da una ripida scaletta interna, fuori un prato all'inglese, una stradina sterrata, piante di alloro, un portone di legno con le maniglie d'ottone. La proteggono un muro color ocra e un presidio rafforzato in questi giorni di carabinieri in divisa, poliziotti in borghese e afghani di complemento. Il maggiordomo e i cinque camerieri sono tutti filippini. Il re non ha problemi economici, ha sempre rifiutato di divenire una curiosità da ricevimento, non ha mai dovuto contare sui buffet per sfamare seguaci, nipotini e bisnipoti. Quando a Kabul c'erano i comunisti lo accusavano di aver trafugato il tesoro dello Stato, compresi i preziosissimi lapislazzuli afghani. Più semplicemente, i denari venivano dai sauditi. Zahir Shah ne ha sempre fatto un parco uso. Nel salone pochi oggetti, un portacenere di Cucci, manoscritti antichi, miniature, libri di arte orientale. Tavoli di legno grezzo, lampadari d'acciaio, e un vaso di orchidee sempre fresche. Il re colleziona antiche fotografie, le preferite raffigurano villaggi deserti avvolti in una luce color ambra, «ci sono stalo molte volte ma non sono mai riuscito a catturarla» ama raccontare. Fuori, l'atmosfera surreale dell'Olgiala, i passanti in bermuda e occhiali scuri ottimi soggetti per le caricature del sovrano, i fuoristrada, le piscine senz'acqua per dieci mesi l'anno (il re non ce l'ha), a trecento metri il Golf club frequentato da Rutelli, dai centrocampisti della Lazio ma non da lui; i luoghi del doppio esilio, i segni della lontananza al quadrato, dalle gazzelle del Pamir ma anche da Roma, quella vera. Raccontano i vicini che il re si vede poco, che esce ogni tanto a passeggiare. Dice il fido assistente Salman Rassul che ha anche smesso di fumare, solo qualche sigaro ogni tanto, toscano o meglio cubano. Poche visite, prima del viavai odierno di diplomatici e capi militari. Dei sei figli, quattro sono a Roma (Ahmed Shah vive a Washington, Mariani sta a Londra, l'unica capitalo straniera che il padre ha visitato, per farsi curare gli occhi). All'Olgiata hanno casa Nader e Mirwais. Balkis, la primogenita, vive sulla Cassia. Shah Mahmoud sta sulla Nomentana. Tutti hanno sposato altri afghani; Balkis, il generale Wali. La prima nipote, capelli e occhi neri, fascinosissima, Homaira come la nonna, ieri riceveva mujaheddin e agenti americani all'hotel Fleming. L'erede è Mustafà: 37 anni, studi in Canada, un ottimo italiano, «special assistent of the king» com'è scritto sul suo biglietto da visita, in questi anni ha tenuto i contatti con l'Alleanza del Nord e vive in casa con il nonno. Ripete quel che riconoscono gli storici: Zahir Shali è stato un grande re. Indisse le prime elezioni libere della storia afghana, allentò la censura, apri scuole e università, consentì la nascita di movimenti politici quali il Tnb, il gruppo nazionalprogressista che allevò la futura nomenklatura filosovietica. Fu spodestato da un traditore e t'mnò l'abdicazione per evitare una guerra civile e un'invasione straniera. Quando l'invasore arrivò, lanciò un appello alla resistenza. Poi tacque. Attese. Può darsi che ora il niomento giusto sia arrivato. Può darsi che lutto si riveli un'illusione, o un inganno. L'isolamento, i cimeli in salotto, i corpi speciali all'ingresso, la piccola corte e le piccole manie dell'esilio, la fedeltà dei figli, la nostalgia della patria, l'extraterritorialità della falsa reggia, il timore di essere ucciso, alcune cose ricordano un'altra vicenda, di un leader italiano che non rivide mai il suo paese ed è sepolto in terra straniera. Che Allah riservi a re Zahir un'altra sorte. Quando suo cugino proclamò la repubblica, lui era a Ischia a fare i fanghi. In Italia inseguiva la passione per l'archeologia: i suoi rari amici italiani erano tutti archeologi o orientalisti. Dopo un attentato lasciò il villino sulla Cassia e il panorama sui prati per trasferirsi all'Olgiata Depreca l'assenza nella capitale di un ristorante afghano, ma ama la cucina italiana. Sovente si fa portare a casa pizze (purché con mozzarella di bufala) per sé, la moglie Homaira e il nipote Mustafà. Guarda «900 minuto» sul grande televisore e sogna la caccia alla gazzella Re Zahir nel 1957 con Bulganin (sopra) e oggi (a destra). Nelle foto sotto con Kennedy nel 1963 e con Elisabetta nel 1971