«II nostro dio è più forte delle loro armi» di Mimmo Candito

«II nostro dio è più forte delle loro armi» «II nostro dio è più forte delle loro armi» Appello ai soldati afghani tra voci di diserzioni in massa Mimmo Candito inviato a QUEHA E' un 8 settembre, l'B settembre talebano, dove tutti scappano e nessuno si gira indietro a guardare la propria ombra, per paura di leggervi la vergogna del tradimento. Scappano a Herat, scappano a Kabul, scappano a Jalalabad, a Mazar, a Nimrod, Kandahar. Come in ima cupa tragedia di Shakespeare, dove orgoglio, potere, e sangue, creano fantasmi che tormentano la veglia e fanno della morte una liberazione, ora anche nelle montagne e nei deserti dell'Afghanistan è arrivato il tempo della fine di un sogno ambizioso; e arriva rapido, divorando il poco spazio che ancora resta tra ima guerra annunciata e il suicidio di un potere che si credeva immortale. Volevano costruire il regno di Allah in terra, questi studenti di dio che cinque anni fa conquistarono il loro feudo in un lampo di sangue, come se davvero un alito divino spingesse la loro marcia travolgente; portarono soltanto il Medioevo della ragione in nome del loro dio. E l'orgoglio di quella sfida che lanciarono al mondo ora li. pèrde, lasciandoli' soli, abbandonati dai loro compagni, che si vanno dileguando in silenzio, disertori di una battajlia senza più molta speranza. «Alali è più forte di qualsiasi arma», grida il loro mullah Obdaillah, e chiama all'ultimo combattimento: «Lottate duro. Dio è con noi». Ma la sua voce resta senza eco, nel deserto vuoto in cui si è trasformato il loro paradiso. Quando una guerra non ha occhi - e sempre più nel nostro tempo ipertecnologico le guerre perdono gh occhi, e la verità - il rischio di trasformare il racconto di una tragedia nel servizio a chi usa l'informazione come propaganda è drammaticamente elevato. E qui la sproporzione è anche evidente, tra la perfetta macchina mediatica del mondo occidentale che assedia questo Afghanistan autosegregato e la superba incapacità dei taleban di comunicare fuori dalla frontiera il loro mondo, la loro politica, le scelte. Ma sebbene quella frontiera sia tuttora sigillata, e nessun giornalista vi sia potuto entrare, sono talmente tante le voci die arrivano fin qui dall'interno misterioso della terra dei taleban - voci di profughi, voci rapite a un telefono fortunato, voci di spie che si confessano o di traditori che scappano a salvare la pelle - sono tante che il loro coro non può non essere credibile. Le voci, tutte, raccontano di un Paese ormai spappolato, dove le città si svuotano, le strade restano deserte, i negozi vuoti, le case saccheggiate dai nuovi lanzichenecchi; e mentre gli uomini, perfino i ragazzi, vengono arruolati a forza, sotto la minaccia di un kalashnikov, la povera gente, a migliaia, a centinaia di migliaia, scappa via verso la campagna per sottrarsi alla paura del bombardamento. Ma è talmente disperata la situazione che nemmeno si fonnano quelle colonne di disgraziati che sempre accompagnano lo scoppio di una guerra, nel cammino della speranza verso i confini e verso il piatto di riso dei campi profughi; il costo impossibile del poco carburante che ancora si nasconde nel mercato nero, e la notizia subito diffusa da tutti che le frontiere del Pakistan e dell'Iran sono comunque chiuse, hanno dissuaso la marcia di chi scappa, fermandolo a cercare un rifugio qualsiasi nelle campagne povere e disastrate che si stendono fuori dalle città. E' una tragedia umanitaria. E di fronte a questa tragedia, che già fa i suoi morti innocenti prima ancora che la guerra-guerra sia stata lanciata, diventa una speculazione crudele il rimbalzo di notizie e di supposizioni di una possìbile esplosione chimica, o batteriologica, da questa parte della frontiera, come ultima vendetta di un principe delle tenebre che trascinerebbe nella propria fine anche la sorte del mondo intero. Il potere dei taleban si va sgretolando con una rapidità che soltanto il loro orgogho cieco poteva non prevedere. «Gh afghani sono famosi per cambiare campo», dice qui il politologo Imtiaz Alam; e la storia di questo Paese racconta di rovesciamenti continui di alleanze tra le bande che nei secoli harmo controllato strade, terre, passi, vallate, scegliendo i compagni a seconda delle convenienze che la pratica comune della corruzione o il carro del probabile vincitore rendevano una tentazione irresistibile. Gli stessi taleban si erano guadagnati il loro potere con questo costume nazionale, aggiungendo di proprio soltanto l'etichetta di Allah alle altre più terrene propensioni. Soltanto ora che la fine si avvicina, il cerchio esclusivo dei taleban scopre l'esistenza comunque di una società civile, di un mondo di gente che non ha travolto la propria quotidianità nell'orgoglio obbligato della missione divina; e a Khost, a Paktia, Paktika, offre ora la spartizione del potere ai vecchi capi delle tribù e dei villaggi di quelle montagne al confine con il Pakistan. E mentre già qualcuno festeggia il possibile ritorno di re Zahir come la fine di un incubo, tra balli e canti che voghono ignorare comunque che a Nord il cannone tuona, e che i bombardieri americani continuano a scalciare qui i loro motori, la guerra che non è ancora cominciata non è affatto finita. Un regime chiude la propria storia, travolto dalla superbia della sua impossibile sfida al mondo intero; ma le montagne e i deserti dell'Afghanistan sono una trappola che ha già divorato cento eserciti potenti. Le targhe di marmo appese alle rocce del Khyber Pass lo ricordano a chi vi si arrampica, e un 8 settembre talebano troverà sempre nuovi volontari della morte. Soprattutto quando Dio lo vuole. Oscure minacce di rappresaglia chimica o batteriologica contro il Pakistan in caso d'attacco Anche i ragazzi arruolati a forza con un kalashnikov puntato per coprire i vuoti nell'esercito Taleban su un blindato per trasporto truppe alla periferia di Kabul: l'esercito afghano è in massima allerta nell'imminenza di un attacco americano

Persone citate: Alam, Pass, Shakespeare, Zahir