Aspettando la guerra kalashnikov in spalla

Aspettando la guerra kalashnikov in spalla Aspettando la guerra kalashnikov in spalla Niente tv, poche radio: difficile credere all'arrivo dei marines reportage Jiulietto Chiesa DZHABULSARAJ (Afghanistan) USCENDO dalla strettissima gola che rende così imprendibile la valle del Panshir, verso la grande pianura che finisce a Kabul, il primo villaggio che s'incontra è Gulbahar. Villaggio grande, di ventimila anime e forse più. In lingua farsi vuol dire «fiore dell'estate». Poesia ispida come i suoni di questo eloquio che sembra taghato nella roccia. Ma davvero Gulbahar significa tuffarsi nel verde brillante di ima pianura fiabesca piena di vita, dopo essere stati immersi nell'imbuto ocra della valle, polveroso e secco, arido e scosceso, dove f-H ve?a6-^aggtàppat(5solo alle rive del Panshir. La guerra sembra lontana. Almeno quella grande, grandissima che si aspetta, con trepidazioni e emozioni diverse e contrastanti, a Occidente e a Oriente. Ma qui non ci sono mass media, non ci sono televisioni. C'è solo qualche radiolina per i più ricchi. E quando chiedo a un gruppo di giovani che mi si è affollato attorno se aspettano l'arrivo degli americani, e che cosa ne pensano, vedo facce interrogative. Non capiscono di che cosa gli sto parlando. Quello che per noi è notizia, per loro è ipotesi astratta, se non stranezza di questi stranieri. Per loro esiste soltanto la «loro» guerra, quella solita, di sempre. Quella che si è accesa all'improvviso decine di volte, per poi spegnersi e covare a lungo come la brace dopo un grande falò, ritmica come le stagioni. Come volete che cambi la guerra? Grande, piccola? Sarà diversa da quella che ieri si è manifestata come un razzo solitario e unico, precipitato sulla periferia di Charikar, partito da qualche sistema dei taleban? L'ambulanza di Emergency non c'è nient'altro, nessun altro, per curare i feriti - ha fatto la spola con Hahaba: altri bambini feriti. Poi a sera, in risposta, è partito un grande colpo di cannone proprio dalla valle, dal contrafforte opposto a quello dove mi trovo. Un colpo solo, anche quello, diretto chissà dove, probabilmente senza meta, tanto per far sentire che si risponde, che cadrà su case e bambini dall'altra parte, perché qui i bambini sono maggioranza assoluta e non ci sono bombardamenti chirurgici. Ci sono solo chirurghi, come Gino Strada e Marco Garatti, con le idee chiarissime e le mani fermissime, a chiudere le ferite, quando possono. Era già buio e il colpo, possente, è rimbalzato due volte, come un gemito, tra le montagne. Per oggi è tutto. Devo ascoltare radio gracchianti per scoprire che a Londra-pronosticano un attacco - ma quale attacco? entro le prossime quarantott' ore. Per sentire che Osama bin Laden ha scelto la solita tv del Qatar per lanciare la guerra santa in tutto il mondo islamico. E provo per un attimo la incongrua sensazione di sentirmi in un luogo protetto, il più sicuro del mondo, mentre dappertutto, altrove, i pericoli sono maggiori e crescono di ora in ora. So che non è così; so che la prima «resa dei conti» avverrà probabilmente non lontano da qui, forse a 80-90 chilometri da questo avaro scambio di colpi cui ho appena assistito. Eppure sento che il pericolo è dovunque, non soltanto qui. E ne misuro l'assurdità mentre bevo una Pepsi seduto al sole sulla terrazza polverosa del ristorante Mohabbat, nella cittadi¬ na di Dzhabul Saraj, sulla strada per Charikar. Sotto di me il mercato brulicante di merci povere, di uva dolcissima, di peperoncini potenti, di riso e farina, di benzina in bidoni blu, di taxi gialli in fila ad aspettare clienti improbabili. Il tutto immerso in un odore nauseabondo di latrina, ma vitale come un alveare in primavera. Dzhambul Saraj è, del resto, straordinariamente vicina alla civiltà occidentale. se non altro perché c'è la luce, cioè vedo i fili, sorretti dai pali. Nessuno sa dirmi chi produce l'elettricità per l'Alleanza del Nord, ma c'è, e potrebbe esserci perfino internet, se un computer non costasse da solo quanto tutto il mercatino della città. L'unico segno che ricordi la guerra sono le canne dei kalashnikov che spuntano sopra le spalle dei mujaheddin in congedo provvisorio, che gironzolano svagati tra le bancarelle, si salutano affettuosi accostando le guance e stringendosi le mani con movenze femminili. Ma il solo fatto che siano qui a Dzhambul Saraj, e non al fronte, dice che non si aspettano sviluppi: né loro, né i loro comandi. E' ben vero che il fronte è a venti chilometri e lo si può raggiungere in fretta, o si può essere raggiunti da lui altrettanto velocemente. Ma , se ci fosse qualcosa, se ne dovrebbero vedere i preparativi, mentre sulla striscia polverosa verso Charikar si muovono solo i Kamaz sovietici carichi di merci. E' vero che, se qualcuno prepara il colpo, non lo è andato a raccontare ai mujaheddin, ma vorranno dire qualcosa le caserme silenziose, le guardie che sonnecchiano nell'ombra. Non si vedono mezzi militari in movimento. Gli unici che si muovono sono i gipponi affittati dai giornalisti stranieri arrivati tutti, come me, da Dushanbè, via aerei ed elicotteri di fabbricazione russa messi a disposizione dall'Alleanza del Nord perché potessimo raccontare al mondo l'imminente sconfitta dèi taleban. Che, però, paradossalmente, da qui si percepisce meno che da Londra o da Washington. Per ora. 1 taleban non si vedono per nulla, in verità, •ma se ne sente incombere la presenza, corposa, quasi fisica. Oltre quell'altra frontiera, ora chiusa, con il Pakistan, c'è attorno a loro più solidarietà e simpatia di quanto si pensasse in Occidente. E forsfe sta proprio qui la spiegazione, invero semplice, del perché tutto è così fermo e incerto: perché sconfiggere Kabul potrebbe essere relativamente semplice - anche se non rapido - ma è quello che può accadere lontano da Kabul che preoccupa e inquieta. Torno verso la valle, ora immersa nell'ombra della sera. La strada che s'inerpica a fianco del fiume è ora una continua teoria di greggi di pecore e capre che scendono a svernare in pianura dopo aver passato l'estate in altura. Immagini di pace. Forse i loro pastori pensano che laggiù, a Charikar, quest'inverno non si sparerà. Non più di adesso. Nel villaggio afghano fuori dalla gola che rende imprendibile la valle del Panshir il vero scontro è quello di sempre col nemico di Kabul WammMMmà P* ^ .*Vfr rnri^jM^ : •^•^.--^-4- Vi^ •■-"--rapa Un'immagine del villaggio di Ruha, nella valle del Panshir, dove le forze dell'alleanza si preparano ad affrontare i taleban: un uomo porta un secchio di lubrificante per i cannoni

Persone citate: Gino Strada, Jiulietto Chiesa Dzhabulsaraj, Marco Garatti, Osama Bin Laden

Luoghi citati: Afghanistan, Kabul, Londra, Pakistan, Qatar, Washington