La globalizzazione delle scemenze

La globalizzazione delle scemenze La globalizzazione delle scemenze Tramontano le facili profezie di benessere per tutti, e le forzature ideologiche della protesta. di John Micklethwaite e Adrian Wooldridge «E un processo irreversibile» Un grave errore. Sono gli entusiasti della globalizzazione a propinarcela, sicuri che gli spiriti animali dell'economia e lo sviluppo della tecnologia ci proietteranno verso un mondo senza frontiere. Che cosa potrebbe mai intralciare un simile cammino? Una gran quantità di imprenditori e finanzieri ne è convinta. Eppure, si possono avanzare almeno tre ordini di dubbi. Il primo riguarda la natura propria della globalizzazione, che è un processo fortemente irregolare, a volte perfino contraddittorio. La stessa spinta tecnologica che per esempio ha decretato il successo delie televisioni planetarie in lingua inglese, come Cnn e Mtv, moltiplica i programmi di informazione legati a realtà strettamente locali. La tecnologia che ha permesso di moltiplicare le edizioni locali dei quotidiani ha casomai reso la gente più provinciale e meno informata su¬ di ' '' g\\ affari del mondo. La seconda questione attiene alla natura umana. C'è un punto ben noto della Teoria dei sentimenti morali Adam Smith nel quale egli mette a confronto la sofferenza che proveremmo a causa della perdita del dito mignolo e l'angoscia che ci deriverebbe dalla notizia che "il grande impero cinese, con la sua miriade di abitanti, è stato improvvisamente inghiottito da un terremoto". Smith afferma che sarem- Abbiamo che il nosè fra onstatato o mondo gile mo scioccati nell'apprendere della catastrofe, che manifesteremmo il nostro dolore e rifletteremmo sulla precarietà della vita; e che tuttavia dormiremmo sonni tranquilli, continuando a dedicarci ai nostri affari e, soprattutto, evitando di sacrificare un mignolo per quei disgraziato popolo. In generale, gli esseri umani tendono a commuoversi più facilmente per i propri interessi immediati - per lo stato di salute delle loro dita che non per il destino di milioni di persone che vivono in un luogo remoto del mondo. L'esempio di Seattle 1999 è classico: a impedire un nuovo round di trattative commerciali non sono stati i dimostranti, è stato soprattutto Bill Clinton, che voleva guadagnare un appoggio caloroso dei sindacati americani alla candidatura alla presidenza di Al Gore. Il terzo fattore da considerare è di ordine storico. A ben vedere, viviamo già nella seconda fase del processo di globalizzazione. Se si guarda indietro a 100 anni fa, si scopre un mondo che, a giudicare da molti parametri economici, era più globalizzato di quello attuale: era possibile viaggiare senza passaporto, il gold standard (aggancio fisso all'oro delle principali monete) realizzava di fatto una valuta internazionale e il progresso tecnologico (nella forma di automobili, treni, navi, telefoni) stava riducendo le dimensioni del pianeta. Gli opinionisti dell'epoca coltivavano esattamente lo stesso sentimento di inevitabilità del processo di globalizzazione. Nel 1911, Norman Angeli scrisse il libro The Great lllusion, nel quale sosteneva che la guerra era ormai impossibile perché le nazioni erano divenute troppo interdipendenti tra loro per cedere a una simile sorpassata follia. Quell'illusione generosa fu fatta a pezzi sul campo di battaglia della Somme. 120 anni che seguirono videro due guerre mondiali, la diffusione del protezionismo, la grande crisi economica, la nascita di fascismo e comunismo. E' un capitolo della nostra storia sul quale dovrebbero riflettere tanto i sostenitori quanto i detrattori della globalizzazione. «La globalizzazione ci mette in balìa delle multinazionali» Sciocchezze. A sentire i contestatori della globalizzazione, viviamo in un mondo "disneyficato", colonizzato dalla Coca-Cola, nel quale imprese di dimensioni gigantesche calpestano le loro rivali più piccole e riducono i governi nazionali al ruolo di lacchè. Questa analisi è doppiamente errata. Al contrario, le dimensioni medie delle imprese vanno diminuendo. Gli sfidanti sono avvantaggiati rispetto ai campioni in carica. In passato, questi ultimi si facevano scudo di barriere all'entrata, come l'elevato costo del capitale, la difficoltà di appropriarsi di nuove tecnologie, i rapporti preferenziali con i governi. La globalizzazione riduce l'importanza di ognuno di questi fattori: quando le frontiere perdono di importanza, diventa più semplice raccogliere capitali, acquistare tecnologia, raggiungere ì mercati, mentre si riduce il peso delle relazioni dirette coi governi nazionali: non è più necessario essere una multinazionale per concorrere con una multinazionale. Secondo la logica dello strapotere delle multinazionali, la Motorola dovrebbe Abbiamo constatato che il nostro mondo è fragile John Micklethwaite è capo della redazione americana di The Economist e Adrian Wooldridge ne è il corrispondente da Washington. Insieme hanno scritto Future Periect: the Challenge and Hidden Promise of Globalization fTimes Books 2000) Traduzione di Elena Frasca

Persone citate: Adam Smith, Adrian Wooldridge, Al Gore, Bill Clinton, Elena Frasca, John Micklethwaite, Norman Angeli

Luoghi citati: Seattle, Washington