«I taleban non sono come Saddam» di Augusto Minzolini

«I taleban non sono come Saddam» «I taleban non sono come Saddam» Riad disposta a aiutare gli Usa ma non a colpire Kabu Augusto Minzolini Inviato a WASHINGTON Forse il problema che più preoccupa Colin Powell, il rompicapo che rovina da 24 ore il sonno a Condoleezza Rice, l'imprevisto che più infastidisce George W. Bush arriva da Riad: l'Arabia Saudita, cioè il Paese arabo sulla cui lealtà gli Usa avrebbero messo le mani sul fuoco, fa le bizze, è restia a mettere a disposizione del grande alleato nella guerra contro i taleban la base di Prince Sultan, la più moderna nel teatro delle operazioni, costruita, a sentire le voci, addirittura dai Bin Laden. I fratelli del nemico giurato degli americani, infatti, nel loro Paese fanno anche i palazzinari. Il punto è questo: la monarchia saudita che non ha problemi se da quelle piste, a 40 chilometri da Riad, partono dei bombardieri per inondare di ordigni incendiari Baghdad, soffre, invece, già solo all'idea che quegli stessi aerei stelle e strisce possano fare rotta su Kabul. Questo paradosso - a sentire gli analisti della Cia rappresenta la differenza tra la guerra del Golfo e quella che gli americani stanno per cominciare in Afghanistan. Il problema non è la base di Sultan Prince: il governo di Washington in un modo o nell'altro riuscirà a convincere il governo di Riad, o al massimo sceglierà un'altra struttura per insediare il suo comando aereo. La vera questione riguarda quello strano atteggiamento che stanno assumendo verso la nuova guerra tradizionali alleati degli Usa nel mondo arabo, come l'Arabia Saudita o l'Egitto di Mubarak. Paesi che nella spedizione contro Saddam hanno fatto la loro parte fino in fondo, ma che sono tiepidi nel nuovo conflitto contro i taleban e Bin Laden. «Ci stiamo accorgendo - spiega un autorevole studioso dell'Agenzia - che la nuova guerra sarà molto diversa da Desert Storm anche sul piano diplùmatico:L'Ii*àqlè uno Stà-to laico, che in passato aveva stretto rapporti con l'Urss e che, all'epoca, aveva aggredito un altro Stato arabo come il Kuwait. L'Afghanistan dei taleban è uno Stato religioso. Addirittura nella loro interpretazione del Corano i taleban sono parenti stretti dei "Wahabi", cioè della setta a cui appartiene non solo Osama bin Laden ma anche la casa reale di Riad. Il talebanismo in realtà discende direttamente dal "wahabismo"». Il problema non è di poco conto. Con i taleban"che agitano insieme al mitra il Corano, il conflitto, indipendentemente dalle intenzioni di Washington, finisce per essere religioso. Non sono gli Usa a imboccare al strada della crociata, ma i taleban a chiamare a raccolta gli altri fratelli musulmani in nome della Jihad. E questa parola che sulla bocca del «laico» Saddam non aveva senso, assume ben altro sapore se viene pronunciata dai custodi di uno Stato che fonda tutte le sue leggi, i suoi costumi, le sue usanze sull'Islam, dai sacerdoti di uno Stato teologico come quello dei taleban: il martirio di'Osàmà biii Laden Ridi quei preti con il turbante e la barba può incendiare gli animi dei fondamentalisti islamici più di quello del rais di Baghdad. Per fare un paragone: è come se i gesuiti impazzissero prendessero il mitra e chiamassero i cristiani alla guerra santa. Senza contare che gli Usa hanno dichiarato guerra a tutto il terrorismo arabo, agli Hezbollah sostenuti in Libano dall'Iran, a Hamas e alla Jihad che operano fra i palestinesi: organizzazioni che per l'Occidente sono terroristiche, ma che per i loro Paesi sono movimenti di liberazione contro Israele. Per cui il nuovo conflitto si muove sul terreno minato della religione, delle tribù, delle sette in cui si divide il mondo arabo. L'Occidente e i governi arabi hanno spesso utilizzato questi elementi a proprio vantaggio: gli inglesi si inventarono Lawrence d'Arabia per sollevare il mondo arabo contro l'impero turco. Lo stesso Osama bin Laden non dava fastidio all'Arabia Saudita e alla Cia quando fece la sua comparsa in Afghanistan. Allora - non è un segreto - ai taleban arrivavano soldi da Riad e da Washington attraverso il governo amico del Pakistan. Ancora oggi, a ben vedere, il viaggio dei denari verso Al Qaeda parte sempre dall'Arabia Saudita e molti degli affiliati dell'organizzazione sono sauditi. Poi, Bin Laden è impazzito agli occhi dei suoi vecchi protettori: un po' come il colonnello Kurt che nella giungla di «Apocalypse Now» ci prese troppo gusto ad ammazzare vietcong. Così Corano e mitra sono diventati una miscela esplosiva. Sono i misteri della «sporca guerra» che in quella zona del mondo non è mai finita. Il nemico degli Stati Uniti può quindi contare sull'appoggio di amici in molti Paesi e su una certa reticenza degli Stati' arabica cominciare dall'Arar " Bìa'SaudUai1 ^a, e ass aTof tè" déll!lslatn.'Pèr ora, mentre cerca di inveintarfei urta strategia, l'America:prende tìempù. Il Dipartimento di Stato tenta di minimizzare l'imprevisto. Colin Powell smentisce che Riad abbia negato la base di Prince Sultan ed è ottimista sull'Egitto: «Con Mubarak ci siamo sempre intesi». In più si sforza a sottolineare le differenze tra i musulmani e il terrorismo, di esorcizzare del tutto l'idea che questa sia una guerra all'Islam: «La religione non c'entra per nulla». Discorsi giusti, in linea di principio veri, ma che si perdono in, un mondo pieno di sottintesi, in cui i silenzi contano più delle parole e le scelte sono mutevoli come gli umori! Qualche giorno fa,, ad esempio, il ministro degli esteri saudita è arrivato a Washington per esprimere la solidarietà del suo governo: la grana della base di Sultan Prince è saltata fuori solo al suo ritorno a Riad, Mentre c'è un punto interrogativo anche sulle intenzioni degli Emirati Arabi: lo sceicco è ricoverato a Londra per un emorragia cerebrale. La diagnosi di Washington insinua che sia di origine diplomatica. Il Dipartimento di Stato è in difficoltà, Powell ha cercato fino all'ultimo di minimizzare il rifiuto saudita e di ostentare ottimismo sulla posizione scettica del Cairo: «Con loro non abbiamo mai avuto problemi» Il ministro della Difesa Usa Donald Rumsfeld Papa Giovanni Paolo II durante la messa in Kazakhstan