Ora gli ex sovietici temono la diaspora

Ora gli ex sovietici temono la diaspora RISCHIO DI CONTAGIO INTEGRALISTA DA OLTRE CONFINE PER UZBEKISTAN, TURKMENISTAN E TAGIKISTAN Ora gli ex sovietici temono la diaspora Avanza lo spettro della guerriglia nel dopo-taleban analisi Giuliette Ciitesa MOSCA ■ venti di guerra soffiano già impetuosi sulle montagne dell'Hindu Kush e il loro sibilo percorre i corridoi del Cremlino. Sibilo di inquietudine e di incertezza perché le opzioni sono tutte aperte. Tutti i principali responsabili russi, servizi segreti, Stato Maggiore, sono in zona a studiare le mosse. In zona vuol dire, prima di tutto, Tagikistan, dove alle diecimila guardie di frontiera russe, già stazionanti, pare si sia aggiunto nelle ultime ore un contingente di 5000 uomini delle truppe speciali. Ma di mettere anche un solo dito oltre la frontiera non se ne parla. Anzi, si dichiara il contrario. Qui a Mosca le preoccupazioni sono due: non lasciare aperto il minimo varco ai dubbi sulla «piena solidarietà» con gli Stati Uniti, da un lato, e dall'altro, evitare accuratamente di far convergere sulla Russia (e sui suoi amici centro-asiatici) gli odii del fondamentalismo islamico. Il che significa, in prima battuta, che Mosca regalerà a Bush una parte del suo know-how, così dolorosamente acquisito prima della sconfitta afghana ma ancora prezioso, ma non muoverà forze proprie né sul terreno, né nei cieli. E non concederà (almeno non pubblicamente) le sue basi militari all'aviazione americana. Una presenza della Nato sul territorio russo - ha ripetuto ieri un alto funzionario del ministero della Difesa - è «del tutto fuori luogo». Nato vuol dire qui Stati Uniti. Del resto Mosca non ha più satelliti per osservare dall'alto. Qui Washington non ha bisogno di aiuti di sorta. I suoi mezzi tecnologici le consentono di leggere - come si usa dire un po' esagerando - le targhe dei fuoristrada Toyota dei taleban, comprate con i petrodollari sauditi. Ma forse Mosca può discretamente far sapere dove sono certi campi minati che preparò allora per accogliere i mujaheddin che venivano dal Pakistan. E l'Alleanza del Nord potrà far sapere agli americani dove sono certi altri campi minati, che preparò a quei tempi per impedire ai sovietici di inseguire i mujaheddin in ritirata fino al confine pakistano. Sarà un aiuto prezioso per non scendere dagli elicotteri nei posti sbagliati. Mosca può ora vantare di avere sostenuto, in questi anni, la forza più importante dell'opposizione ai taleban: l'Allenza del Nord. Per uno dei tanti paradossi della storia i mujaheddin sono stati costretti a ricorrere all'aiuto degli infedeli shurav/, quei «sovietici» che avevano cacciato da Kabul nel 1992. Kabul e Islamabad sono riuscite, insieme, con un tempismo eccezionale in verità, proprio in coincidenza con il massacro di New York quasi sapessero in anticipo ciò che stava per accadere - a uccidere il suo leader indiscusso, Ahmed Shah Massud. Il colpo è stato durissimo per il carisma di Massud e la sua abilità come capo militare. Ma l'Alleanza diventerà ora più forte di ora in ora, ed è già in azione per poter poi mettere la propria spada sul piatto quando si tratterà di formare il govemo post-taleban. Una parte del peso di quella spada è - ironia della storia - marcato Russia. Dushanbé, Tashkent, Bishkek sono, per ora, sulla stessa lunghezza d'onda. Sbilanciarsi è pericoloso. I taleban sono perdenti prima ancora che le ostilità comincino, ma il loro Afghanistan è stato ed è il luogo di raccolta di tutte le opposizioni guerrigliere islamiche dell'Asia centrale. La demolizione del regime dei taleban e la fine della protezione che gli si accordavano i gruppi annati produrrà una diaspora che sarà impossibile bloccare. Molti arriveranno, e si insedieranno sulle montagne oltre il confine. Le guerriglie potrebbero moltiplicarsi e divenire perfino più attive di quanto non siano state in questi «anni talebani». Da qui la prudenza di capitali dove gli uomini al potere sono tutti laici, tutti comunisti convertiti al nazionalismo, ma tutti immersi loro malgrado in un mare islamico, dove il seme del radicalismo pare destinato a dare presto frutti copiosi, come già accade in Pakistan. Dall'altro versante la minaccia di Bush - «Chi non è con noi è contro di noi» - eserciterà il suo peso nei giorni a venire. Tutte queste Repubbliche ex sovietiche sono ormai pezzi di Terzo Mondo assetati di denaro americano, incapaci di uscire da soli dall'arretratezza. La tentazione di lasciare la Russia al suo destino e di tentare la fortuna con l'America l'hanno già provata più volte in questo decennio. Il Turkmenistan di Sapamiurad Nijazov, che guarda dalle finestre del suo palazzo la sua statua dorata alta dieci metri, ha già scelto di stare con Washington, ma anche lui fa sapere che non è il caso di parlare di aiuti militari. Se la sua lunghissima frontiera con l'Afghanistan è stata tranquilla in tutti questi anni è perché il Turkmenistan si era messo d'accordo con le compagnie petrolifere americane e arabo-saudite, e con i taleban, per far passare il grande oleodotto dal Turkmenistan in Pakistan attraverso l'Afghanistan. I taleban possono crollare - tutti lo pensano - ma ciò che li ha messi al potere non crollerà con loro. Per la semplice ragione che non si trova dentro l'Afghanistan. Per le tre Repubbliche la tentazione di tagliare i legami con il Cremlino e cercare la fortuna con gli Usa il presidente russo Putin può fornire alle forze americane importanti indicazioni sui campi minati in Afghanistan

Persone citate: Ahmed Shah Massud, Bush, Massud, Nijazov, Putin