Quel piatto alla giudìa

Quel piatto alla giudìa Ariel Toaff racconta la cultura alimentare ebraica Quel piatto alla giudìa E^ SISTE una cultura alimentare | ebraica? Ho affrontato nel mio ^ saggio questo tema con riferimento alla complessa e variegata realtà dell'ebraismo italiano tra Rinascimento ed età moderna, cercando di rispondere a questo quesito al di fuori degli schemi generalmente adottati da chi si è occupato di cucina ebràica. In genere si afferma che le pratiche dell'alimentazione ebraica vanno inquadrate essenzialmente nell'ottica del sistema religioso fondato sui divieti biblici, dilatati ed interpretati nella normativa rabbinica. In altri termini l'ebreo si sarebbe alimentato con i cibi a lui permessi, mentre avrebbe scartato tutti quelli che in un modo o nell'altro fossero caduti nelle categorie vietate esplicitamente dalla Bibbia o dall'ermeneutica generalmente estensiva della ritualistica successiva. In questo senso le sue scelte alimentari sarebbero da considerarsi come fondamenti della sua identità culturale e religiosa. Come è noto, l'idoneità alimentare è detta in ebraico kasherut e ogni cibo permesso viene identificato come kasher, una categoria ristretta dai divieti biblici e ancor più dalla rigida' applicazione della ritualistica successiva. È indubbio quindi che le scelte alimentari dell'ebreo risultassero pesantemente condizionate da una rigida dietetica dalle motivazioni rehgiose. Si mangiava quello che era permesso mangiare e si cucinava con ingredienti compatibili con la normativa rabbinica in fatto di alimenti. Ma bastano queste considerazioni per concludere, come molti hanno fatto, che la cultura alimentare ebraica appare fondata sui divieti religiosi e, a parte questi, gli ebrei cucinavano e mangiavano come i loro vicini, cristiani o arabi che fossero? Oppure che le pratiche alimentari ebraiche siano il frutto dell'incontro dei cibi, sopravvissuti all'ecatombe dei divieti religiosi, con il gusto e le tradizioni gastronomiche dell'ambiente circostante, in un processo di osmosi ineluttabile e quasi automatico? Soprattutto se esaminiamo l'ebraismo italiano, in cui correnti migratorie occidentali e orientali, sefardite, ashkenazite e nordafricane, si sono incontrate e stemperate nel corso dei secoh, non ho difficoltà ad ammettere che il gusto alimentare e la cultura della mensa dei diversi gruppi di immigrati appaiano sensibilmente condizionati ed influenzati dall'ambiente di origine, come d'altra parte è innegabile che la comunità ebraica italiana autoctona, di antica tradizióne e stanziamento, sia stata tutt'altro che insensibile alla cultura tipica della cucina italiana. E tuttavia dissento sul fatto che in queste considerazioni si esaurisca il discorso sulla cultura alimentare ebraica. A mio avviso ci vuole infatti molto di più del binomio divieti religiosi ed influenze esteme per spiegarne il fenomeno, sia a livello delle scelte e preferenze alimentari che in quello che attiene alle sue particolari valenze di socialità. Sono d'accordo quindi con Jean-Louis Flandrin nella considerazione che le pratiche alimentari degli ebrei non vadano viste soltanto dal punto di vista del divieto, ma anche come scelte in positivo di ordine diverso, di gusto, di trazione e di cultura. Quando nell'Italia del Quattrocento o del Cinquecento ci si riferiva ad un determinato cibo, definendolo «all'hebrea» o «alla giudea», non significava certamente che quel cibo era da considerarsi kasher dal punto di vista della normativa rituale ebraica (il che non sempre e non necessariamente era vero), ma soltanto che nei suoi ingredienti, nel gusto e nell'aspetto era immediatamente riconoscibile da tutti come tipicamente ebraico e diverso da un'analoga pietanza prodotta da cristiani. Così, per fare qualche esempio, i marzapani e le frittelle con miele e cannella, i paté di fegato grasso e i salsiccioni d'oca, il hamin, la carne stufata del Sabato con fagioli e ceci, «con pevere et aglio», i carciofi fritti «a rosa» e l'indivia cotta al forno con pesce azzurro, tutti cibi la cui preparazione veniva comunemente qualificata come «all'hebrea», non erano certo chiamati in quel modo perché il loro consumo era permesso o prescritto agli ebrei dalle nonne della Bibbia e dei rabbini, ma perché vi si riconosceva la particolare espressione del gusto gastronomico ebraico. Certo vi erano ragioni storiche, culturali e religiose ad averlo formato e condizionato, indirizzando le sue preferenze verso determinati prodotti, a differenza di altri (pur permessi dalla normativa religiosa), ma il fatto incontrovertibile è che il gusto gastronomico ebraico appariva evidentemente diverso da quello dell'ambiente cristiano circostante. «Mangiare da ebreo» era quello che al mercato dei cristiani era scelto ed apprezzato preferibilmente dagli ebrei, che sapevano come prepararlo e cucinarlo in un numero straordinario e particolare di ricette. Non di rado il cristiano si avvicinava per la prima volta a quel prodotto (per esempio la melanzana o petonciano, gh insaccati d'oca, i marzapani o la cotognata), attratto dall'opera di promozione che ne avevano fatto, anche inconsapevolmente e involontariamente, gh ebrei. I negozi alimentari dei ghetti pullulavano di clienti cristiani, ghiotti più che affamati, mentre fuori dei quartieri ebraici cuochi, pistori e pasticcieri non disdegnavano di cimentarsi nelle ricette «alla giudia», che costituivano un sicuro richiamo culinario. In ogni caso, parlando delle scelte alimentari ebraiche, e nel nostro caso con ancor maggiore attenzione, affrontando l'argomento della pratica della cucina presso gli ebrei in Italia, abbiamo anche tenuto conto deUe invasioni e contaminazioni culinarie esteme, che appaiono averla influenzata, e dei processi osmotici con la circostante cultura italiana della tavola, di cui talvolta costituisce il prodotto, con risultati ibridi anche se indubbiamente creativi. Ariel Toaff

Persone citate: Ariel Toaff, Jean-louis Flandrin

Luoghi citati: Italia