Fra spillette e medaglioni la breve stagione dei maoisti italiani di Pierluigi Battista

Fra spillette e medaglioni la breve stagione dei maoisti italiani CON IL LIBRETTO ROSSO COMBATTEVANO LA «LINEA NERA» DEL PCI IN UN'ATMOSFERA DI DEVOZIONE E ATTESA MIRACOLISTICA Fra spillette e medaglioni la breve stagione dei maoisti italiani Pierluigi Battista ■'ITI dichiaro uniti in matrimoVV hio», proclamava l'officiante Aldo Brandirah. Il quale non era un prete vero e proprio, ma il capo indiscusso del gruppo maoista più famoso d'Italia, l'Unione dei comunisti italiani marxisti leninisti. Il compito del sommo sacerdote del maoismo itahano, oltre a quello di verificare con severe riunioni di «critica e autocritica» la purezza ideologica dei seguaci, era quello di misurare la lunghezza delle gonne delle militanti, testare la riluttanza dei compagni nei confronti di pratiche sessuali che indulgessero borghesemente a «modi astrusi di fare l'amore», celebrare le nozze proletarie dei diffusori di «Servire il popolo», organo del partito: «Il vostro compito è servire il partito e il popolo, seguire gh insegnamenti del presidente Mao, educare i figli ai valori del comunismo, essere di esempio per il proletariato». Oggi Brandirah, attraversata l'esperienza espiatrice di CI, è approdato a Forza Italia. Ma non rinnega il passato di sacerdote dei matrimoni maoisti: «Nessun pentimento. E' stato un periodo magnifico. Non rinnego il vissuto, ma la teoria sì». Il vissuto di Brandirah, in un'epoca in cui il vissuto faceva tutt'uno con la teoria e pure con la prassi, è quello degli apostoli itabani del verbo maoista. Una setta vasta e ramificata che, quando il Grande Timoniere lasciò la vita terrena, era già dispersa nella disillusione. Ma che negli anni attorno al '68 era diventata un elemento fisso della coreografìa del «movimento». I maoisti italiani (i «filo-cinesi», secondo la pubblicistica di allora) si rifornivano di spillette e medaglioni con l'effigie del presidente Mao, traducevano articoli del pechinese «Quotidiano del popolo» in cui si riferiva che in Cina avevano scoperto il modo di prevenire i terremoti, agitavano ostentatamente il libretto rosso di cui citavano con ripetitività ossessiva massime e sentenze, ascoltavano estasia¬ ti le note deh'«Oriente è rosso», parlavano come un «dazebao», catechizzavano i compagni sulla superiorità estetica del balletto del «Distaccamento rosso femminile». Erano dilaniati da feroci divisioni ed erano scintille se si incrociavano un militante del Partito comunista d'Italia «linea nera» con un militante del Partito comunista d'Italia «linea rossa». E' difficile ricor¬ dare che cosa dividesse con tanta veemenza la linea nera da quella rossa ma il disegnatore Sergio Staino, che era della «linea nera», confessa che quelli della setta rivale della «linea rossa li consideravamo nient'altro che dei lacchè al soldo dell'imperialismo yankee». Quelli della «linea nera» come Staino erano anche filo-albanesi e il padre di Bobo trascorse alcune memorabili estati a Tirana in pellegrinaggio nel paradiso di Enver Hoxha, tra visite guidate a fabbriche e fattorie. Paradiso? Un inferno, per gli albanesi e per il povero Staino. Del resto l'infatuazione maoista riceveva, ancora accesi i fuochi della Grande Rivoluzione Culturale narrata come una luminosa esperienza di rigenerazione universale, il plauso degli intellettuali. Sartre diffondeva un giornale maoista davanti ai cancelli della Renault, Godard girava «La cinese». In un libro scritto assieme a Carlo Bonini («Toga rossa»), il giudice Francesco Misiani confessa: «Riuscimmo persino a esaltare il processo popolare in Cina, di cui avevamo avuto un saggio all'interno di uno stadio dove vennero condannati per acclamazione quattro disgraziati». Per Maria Antonietta Macciocchi «un popolo sta marciando a passi leggeri e con entusiasmo verso il futuro». Dario Fo, nel 1971, fece precedere il suo spettacolo «Morte e resurrezione di un pupazzo» da una fondamentale citazione del presidente Mao: «Le arti drammatiche hanno una grande importanza nella lotta che oppone nel campo della letteratura e dell'arte il proletariato e la borghesia». Qualche anno prima uno scrittore di fiabe come Gianni Rodari aveva affermato che, grazie agli insegnamenti di Mao, i bambini cinesi erano tutti «vispi, allegri e simpatici». Naturale che in quest'atmosfera di devozione e di attesa miracolistica molti giovani assetati di assoluti e di una fede incrollabile vedessero nel maoismo nostrano gli elementi di una nuova religione vissuta con fedeltà assoluta al dogma. Dovevano spogliarsi di ogni bene, come fecero l'attore Lou Castel e l'attrice Paola Pitagora (ma l'episodio viene rimosso nel suo recente e interessante «Fiato d'artista» pubblicato da Sellerio) che contribuirono alla causa foraggiando «Servire il popolo» che perciò venne ribattezzato dai più cinici maliziosi «Servire il pollo». Dovevano spogliarsi di ogni inclinazione piccolo-borghese seguaci come Renato Mannheimer e Marco Bellocchio, Giuliana Del Bufalo e Enzo Lo Giudice e un ferreo militante dell'Unione marxisti-leninisti come Michele Santoro - è stato lui stesso a ricordare l'episodio - che si scagliò in una pubblica assemblea contro la fellatio, bollata come pratica «reazionaria». Anche se non era scritto sul libretto rosso. Per molti era una nuova religione vissuta con fedeltà assoluta al dogma Il plauso talora cieco degli intellettuali Bobo Staino, a destra, e Michele Santoro, qui sotto: entrambi esponenti della «linea rossa» Aldo Brandirah, a destra. Nella foto sopra Renato Mannheimer. Più a destra una manifestazione studentesca a Milano

Luoghi citati: Cina, Italia, Milano, Tirana