Don Giovanni va nel Bronx di Sandro Cappelletto

Don Giovanni va nel Bronx INVENZIONI, FORZATURE, TECNOLOGIA: COSÌ I REGISTI DEL NOVECENTO HANNO CAMBIATO L'OPERA Don Giovanni va nel Bronx Le provocazioni risvegliano la lirica Sandro Cappelletto SE Don Giovanni abita nel Bronx e indossa i jeans; se Wotan ha il doppiopetto, il fax e il personal computer e il Walhalla è l'ultimo piano di un grattacielo del potere; se il San Francesco di Olivier Messiaen predica agli uccelli che lo ascoltano dalle braccia di una croce di monitor dove appaiono proiezioni di videoclip ornitologici; se Nerone e Poppea si amano di fronte a un Colosseo diventato sfascio di auto rottamate; se Madama Butterfly muore su una scena spoglia, inondata da una luce dighiaccio, così incongrua alla sua Nagasaki. Nella storia della lirica, il Novecento sarà ricordato come il periodo che ha reso protagonista il regista d'opera, una figura professionale che appare, con stabile dignità di presenza nella locandina, verso la metà del secolo scorso e tanto più dilata il proprio margine creativo quanto più i cartelloni diventano ripetitivi, centrati sui titoli del repertorio: si chiederà allora allo sguardo del regista di introdurre elementi di novità, di rilettura, di studiata provocazione e proposta. Il pubblico che per gusti personali, aspettative estetiche, codici di riferimento culturali, disponibilità a confronfersi con l'eccentrico, è diventato il più conservatore dei pubblici, si è trovato così sollecitato a radicali rivisitazioni sceniche e interpretative, che hanno reso le indicazioni di tempo e di luogo fomite da compositore e librettista non più dei vincoli, semmai delle ipotesi. Ma l'intervento registico non si limita a interpretare, o trascurare, le didascalie, affronta ormai le dinamiche dei personaggi', si pone come autonomo elemento drammaturgico, anche in opposizione alla drammaturgia precisamente indicata dalla musica. Se, nell'edizione 2000 de L'anello del Nibelungo al Festival di Bayreuth, la .regia di Jùrgen Flimm chiede a Briinnhilde, nel finale del Crepuscolo degli dei, di uccidere Hagen prima di riconsegnare l'anello del Nibelungo alle figlie del Beno, proprio mentre in orchestra dilaga il motivo della redenzione d'amore, si generano due blocchi semantici contrapposti: violenza contro perdono, delitto contro redenzione. Una scelta contraria alle esplicite intenzioni della musica, fedele invece ad un autonomo impianto narrativo. [...] Là «rilettura», cioè la ricezione, di un regista si rivela, stagione dopo stagione, perfino necessaria, come una scarica elettrica ad alto voltaggio immessa nel circolo di un sistema produttivo fortemente sostenuto dal finanziamento pubbhco, in crisi di impatto mediatico, e non più difendibile solo ricorrendo alla retorica dei «valori alti». «Bitengo che - a partire dagli anni Cinquanta - la presenza e l'attività dei registi sia stata in qualche modo rilevante se non addirittura ingombrante; ma il punto è un altro: a cosa è servita? Probabilmente ad allungare la vita a degli organismi in via di deperimento», scrive Luca Bonconi nel 1999. Comunque, un merito storico. Della Tetralogia wagneriana allestita a Bayreuth nel 1976, centenario della prima rappresentazione, ricordiamo oggi, più ancora della direzione di Pierre Boulez, le scelte di Patrice Chéreau, che lesse quei personaggi come i Krupp, come i Buddenbrook, come la crisi e la colpa della potenza tedesca, con una violenta torsione della vicenda verso l'attualità. Se il valore emotivo della musica Vagisce sulla scena come illusione suprema, dissipatrice di ogni distanza, di ogni riflessione dialettica» (Christophe Deshoulières), il regista ne nega la pretesa purezza, la contamina e contestualizza, e si trova ad affrontare il dilemma oggi più pressante: aggiungere o sottrarre, colmare la scena o renderla nuda. Franco Zeffirelli o Bob Wilson, il Don Giovanni farcito di simboli citazioni allusioni rimandi panneggi maschere di Boberto De Simone o quello di Peter Brook, dove l'azione e il carattere dei personaggi prendono vita in una scena occupata da due sedie? Il Don Giovanni funebre di Strehler, quello vecchio e già morto di Bonconi, quello perdutamente vivo di Sellars: tutti possibili, se la prima meraviglia della scrittura mozartiana è la sua ambiguità, il suo sottile offrirsi all'interpretazione. Le innovazioni tecnologiche hanno moltiplicato le possibilità di intervento registico. Se l'Ottocento ha conosciuto il passaggio dei sistemi illuminotecnici dalle candele al gas (Londra, 1830; Milano, 1833) e poi all'elettricità (Parigi, 1875: due ponts de projection installati all'Opera; Milano, 1883: primo impianto di illuminazione elettrica), il Novecento è stato segnato dalla possibilità di diffusione nello spazio del suono e delle voci attraverso l'uso dei microfoni prima e, poi, dei sistemi elettronici di memorizzazione e riproduzione del suono in tempo reale e/o differito. Una volta di più, la tecnologia diventa opportunità, scelta poetica. In una conversazione con Enzo Bestagno del 1987, Luigi Nono racconta il suo entusiasmo di fronte alle nuove possibilità ere-ative offerte dall'elettronica: «Durante le conversazioni con John Chowning ed il gruppo di compositori che lavorano al grande centro di computer dell' Università di Stanford, ci capitò di parlare del delay, uno strumento che ha la possibilità di ritardare anche di molti secondi i suoni che sono stati eseguiti o programmati, dandoti così modo di costruire sovrapposizioni interessanti e variate: anticipi, ritardi, memorie, anche trasformazioni del tempo... la continua scoperta-studio dello spazio». La mise en éspace del suono diventa risorsa spettacolare, a volte banalizzata secondo comode convenzioni e impiegata solo per sorprendere. Compositori più consapevoli ne colgono invece il potenziale dirompente anche riguardo ai luoghi abituali della fruizione, dove ormai si sono consolidate una memoria, un'attesa, delle consuetudini di comportamento sociale, rituale. «L'elettronica rende possibile trasformare in sala da concerto anche un deserto», dice Luciano Berio. Piazze, fabbriche dismesse, rovine archeologiche, stazioni ferroviarie, cantine, boschi, elicotteri in volo, dove siedono i quattro esecutori di un Quartetto di Stockhausen, collegati, al -pubblico, radunato in un hangar, da un fedelissimo sistema di trasmissione: non c'è luogo negato alla ricerca di una nuova teatralità dell'emissione e della ricezione del suono. Arriva in libreria, col titolo Avanguardie e utopìe del teatro, il terzo volume della Storia del teatro moderno e contemporaneo Einaudi. Pubblichiamo qui sotto alcuni brani del saggio di Sandro Cappelletto Inventare la scena, dedicato al ruolo del regista nel teatro d'opera Il Don Giovanni nella regia di Peter Brook (direttore d'orchestra Daniel Harding); qui sopra, l'opera di Mozart nell'allestimento di Luca Ronconi nella foto piccola a sinistra, Sandro Cappelletto

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