La po\otà fa l'intellettuale

La po\otà fa l'intellettuale La po\otà fa l'intellettuale Dalle memorie di Ferrarotti al «Dono» di Nabokov: quando le ristrettezze economiche aguzzano l'ingegno L I INTELLETTUALE vero? Meglio sia povero. Ultimo di una folta folla che in passato ha pensato la stessa cosa (che poi l'abbia anche praticata coerentemente è tutt'altro discorso) questa volta a sostenere questa tesi è Franco Ferrarotti. Lo fa nelle belle pagine di memorie con cui ripercorre la sua densissima vita di patriarca della sociologia italiana contemporanea. Afferma dunque Ferrarotti, rievocando i durissimi anni giovanili trascorsi a Torino, con maestri - tanto per citarne alcuni - del calibro di Pavese, Felice Balbo, Nicola Abbagnano, la certezza dell'assoluta fecondità della povertà materiale. Almeno per chi vuol seguire il richiamo del lavoro intellettuale disinteressato (ovvero non pervaso da conflitti d'interesse tra probità del procedere e discostamenti dalle proprie intime veridicità in cambio di vantaggi più o meno sostanziosi). Va Ferrarotti agli anni bellici e a quelli immediatamente successivi. Quando sopravvive dando lezioni di inglese e traducendo testi che Pavese farà uscire da Einaudi (è il caso di Veblen, «La teoria della classe agiata», alla cui versione in italiano si era dedicato inizialmente Antonio Giolitti che poi s'arrende - sembra far capire Ferrarotti perché, da giovane di doviziosa famiglia qual è, non è obbligato a sottoporsi alla dura ma salutare ginnastica dell'affrontare le difficoltà, anche quelle poste dal testo piuttosto ostico di Veblen, a stomaco vuoto). Altra solfa, invece, per Ferrarotti che ammette: «Ero veramente assillato dal problema di unire il pranzo con la cena - problema secolare, che ha afflitto e dovrebbe continuare ad affliggere molti intellettuali veri». E, per chi non avesse ancora capito, più avanti esplicita ulteriormente: «La stessa povertà, quella che può essere vista soprattutto come incertezza dei mezzi di sostentamento, è un grande aiuto. Maturare il senso del proprio destino è possibile solo in una situazio¬ ne di grande incertezza materiale». E tuttavia c'è incertezza materiale e incertezza materiale. La povertà può essere, per un giovane che s'avvia alla scoperta della vita, una scelta. Benedetta e sacrosanta. Come accade per esempio al protagonista de «Il Dono» dietro cui Nabokov ripercorre i suoi primi passi di senza patria nella Berlino post-bellica; «... quel giorno sarebbe stato pagato per le ultime lezioni, sapeva che senza quei soldi avrebbe dovuto di nuovo fumare e mangiare a credito, ma si rassegnava pienamente a quell'idea in vista dell'operosissimo ozio (sta tutto qui, in questa combinazione), nella nobile vacanza spirituale che si stava concedendo. Che si concedeva non per la prima volta. Schivo ed esigente, vivendo sempre in salita, consumando tutte le proprie forze nell'inseguimento degli innumerevoli esseri che guizzavano dentro di lui come in un mitologico boschetto alle prime luci dell'alba, non sapeva più costringersi ad avere rapporti con le persone per guadagno o piacere, e di conseguenza era povero e solitario». O, per venire a pagine a noi più vicine ma sempre sulla stessa lunghezza d'onda, la vertiginosa e densa vita perennemente in bilico - su tutto, su ogni cosa che parrebbe, se dovesse mancare, poter uccidere con il suo sottrarsi - del protagonista di «Seminario sulla gioventù» del sublime Aldo Busi. Ricordate? «Comunque è sempre mio fermo proposito perdere o mantenermi in equilibrio, non ho nessuna intenzione di accumulare né di fare la bella vita né di pensare al "futuro"». Ma sono, queste, presenze e atteggiamenti di vita abbastanza inusuali per una comunità di intellettuali che viaggiano, per lo più, orientandosi su altri punti cardinali. Per lungo tempo - da Vico in poi tanto per rimanere negli ultimi secoli - nelle vicende culturali del nostro paese è stata la norma imbattersi nel racconto della miserabile inedia sperimentata, non scelta, da giovani artisti. E da solidi intellettuali più o meno prossimi a sbocciare (o a sfiorire) e per i quab si è prodotta persmo una legge per erogare una sorta di miserabile pronto soccorso pensionistico d'emergenza (Legge Bacchelli). Ma al di là dei dettagli - che poi si riassumono tutti nelle stringatissime pagine con cui Comodi racconta la fame, il freddo, insomma la sobria quotidianità della miseria di Geppetto e di Pinocchio - quello che da noi colpisce, della concretezza di tante vite disagiate, almeno al loro decollo, è il lacrimevole tono con cui ci vengono tramandate. Ammucchiarsi di voci con cui - da parte degli stessi intellettuali, o dei loro biografi - ci si china con commiserazione sugli estenuanti corpo a coipo che si sono sostenuti con la povertà, con la miserabilità della famiglia d'origine. Oppure con le difficoltà di vita quotidiana in cui s'inciampa dopo aver virilmente girato le spalle ai prepotenti di turno. Me teporose cooptazioni che qualche regime di vincitori elargirebbe, anche, ma in cambio di qualche segno di subordinazione, di ravvedimento. Strana torsione questa autocommiserazione degli intellettuali. Quasi che la miseria e l'isolamento a cui si viene condannati non facessero parte delle regole sempiteme del mestiere abbracciato, nonché degli immutabili e implacabili meccanismi del potere, ma fossero dovuti a qualche misterioso accanimento che va a infrangersi sul loro particolare destino. Emblematica la poesia di Piero Jahier «Mi hanno prestato una villa». Lì a fame le spese è persino quel conte Sforza che in segno di solidarietà antifascista con l'epurato poeta-ferroviere gli ha messo a disposizione, come provvisoria dimora, una signorile abitazione in Lucchesia (d'accordo, isolata e senza riscaldamento in pieno invemo, e piena di spifferi). Scrive dunque Jahier: «Mi hanno prestato ima villa 1 con diritto incontrastato 1 di farci le cose belle che non ci si possono fare I goderci le cose belle che non ci possono godere I e nondimeno sia grazie al Signore I di aver vietato la villa ai ricchi in questa stagione. 1 Debbono fare i signori; e noi poveri a sorvegliare/ che non facciano miseriate». Altri tempi, naturalmente, sia per la miseria che per gli intellettuab in bolletta. Allora - non ancora comparsi a frotte gli atipici che oggi s'affollano nel lavoro intellettuale - non s'era intuito che finché si è inquieti, almeno nel conto corrente, si può stare tranquilli. Sicuri di non aver venduto distrattamente l'anima a qualche diavolo di passaggio. Il sociologo Franco Ferrarotti: le sue «memorie» escono da Donzelli

Luoghi citati: Berlino, Torino